“Tornatene a casa tua, islamica” merita condanne e non victimblaming

Pochi giorni fa, la presidentessa del GMI (Giovani Musulmani d’Italia), Nadia Bouzekri, ha denunciato di aver subito degli insulti razzisti da una funzionaria dell’aereoporto in cui si svolge l’accaduto. Al momento dei controlli di sicurezza, la giovane ha chiesto di usufruire di una apposita cabina per spogliarsi dell’hijab, il velo, e di un lungo coprispalle; per tutta risposta, la donna in divisa ha “insistito” per svolgere subito il controllo nel peggiore dei modi, apostrofandola come “islamica” e dicendole di “tornarsene a casa sua” o “al suo paese“, provocando, inevitabilmente, un fortissimo momento di tensione e coinvolgendo i colleghi che hanno dovuto intervenire e ristabilire l’ordine.

L’informazione e il circolare dei dettagli è avvenuto principalmente su Facebook, con i post della Bouzekri che ha inoltre affermato di aver ricevuto, tra i molti messaggi di solidarietà (a cui vorremmo aggiungerci con questo articolo), diverse confidenze da altre ragazze a cui è toccato lo stesso trattamento. In tantissimi hanno condiviso la notizia e dimostrato indignazione contro questo episodio di razzismo, un ennesimo segnale che una grossa parte della politica e la propaganda razziste e xenofobe trovano espressione nel quotidiano e per giunta mediante addetti al controllo, coloro che dovrebbero garantire una sicurezza che adesso distruggono. I salvinismi giustificano e normalizzano odio e fobie, nessuno ha più filtri e il pensiero bypassa anche la responsabilità di una divisa. Sarebbe un ottimo momento per parlarne, eppure, ci sono state reazioni inaspettate anche da chi ha sempre mostrato di combattere le discriminazioni, talvolta legate ad uno strano “disconoscimento” del problema.

In molti hanno sì, asserito che si trattasse di un episodio terribile e condannabile, ma hanno anche polemizzato sulle “manie” di purezza delle donne musulmane.

Insomma, la funzionaria cattiva, ma anche lei poteva pure toglierselo quel velo. Non è che se te lo togli non sei più pura.

In una situazione come questa, è davvero anomalo che la questione religiosa/interpretativa passi in primo piano. Negli spazi e nei contesti adatti possiamo certamente parlare del valore del velo, di Islam, di interpretazioni, allo stesso modo possiamo anche discutere dell’utilità delle cabine negli areoporti e su chi dovrebbe usufruirne; c’è chi ha sollevato la questione della fila ai controlli, ad esempio, ed è un argomento comprensibile e utile se parliamo di sicurezza. Non se parliamo di razzismo. Una ragazza subisce un’aggressione verbale islamofoba, ma l’attenzione si sposta con nonchalance dall’islamofobia al suo velo e alle sue convinzioni religiose, quasi a sottolinearne la responsabilità o, quantomeno, a sminuire la sua denuncia non focalizzandocisi. Poteva evitare, poteva mettersi una camicia, poteva mettersi una cuffia, poteva spogliarsi: ma la questione non è che la donna non doveva permettersi? Insomma, lasciamo perdere il razzismo che dilaga: figliola, ma com’eri vestita?

Bouzekri è stata poi accusata di vittimismo e di aver dimenticato di sottilineare che aereoporti di molti altri paesi sono molto più spietati. Effettivamente, abbiamo quotidianamente notizia, specialmente da parte di attivisti e attiviste, di un allarmante e riprovevole comportamento dei funzionari di molti paesi arabi che spogliano e maltrattano, umiliano ferocemente i viaggiatori per questioni di razzismo (e in certi casi di misoginia). A che pro, però, farlo presente a lei?

Parlare dei problemi del proprio paese non deve diventare un tabù in virtù del fatto che qualcuno nel mondo “se la ripassa peggio“: quante volte abbiamo letto “e a casa dei musulmani li rispettano i cristiani?”, oppure “e nessuno pensa ai problemi peggiori?”? E’ frequente che si cerchi di distogliere l’attenzione da un preciso argomento abbattendo rovinosamente il valore di una lotta.

Che poi certi giornali o certi blog esagerino i toni per scadere nel solito sensazionalismo acchiappaclick nulla toglie alla mobilitazione della giovane donna e di tutti coloro che si sono voluti unire alla sua lotta all’islamofobia. Il confine è labile e bisogna essere molto chiari per non mettere un piede nel victimblaming (c’è, anyway, chi ha scritto post e articoli sull’argomento sensatissimi e, appunto, non rivolti alla vittima dell’episodio ma al solito linguaggio pomposo e accattivante dei media, al loro vittimismo, e/o alle situazioni di ingiustizia in altri paesi).

A volte, bisognerebbe capire quando non è il caso di azzardare certi collegamenti e andare pericolosamente fuori tema. Lo facciamo con gli omosessuali parlando di quanto sia sciocco baciarsi in pubblico in mezzo agli omofobi, lo facciamo con le donne parlando di quanto sia stupido uscire di notte o scollate tra tutti questi stupratori, lo facciamo addirittura coi disabili quando decidono di denunciare chi non rispetta le leggi che li proteggono tra tutti questi stronzi che non capiscono, lo facciamo quando giustifichiamo chi non assume un cameriere nero, o omo o solo tatuato perché ci sono tanti clienti che lo discriminerebbero.

Bisogna dare voce e accogliere chi denuncia, lottare con chi si è finalmente preso la briga di affrontare non solo il problema più evidente, la discriminazione che ha subito, ma anche tutti i feedback che ne riducono l’importanza.

Sveva Basîrah

2 risposte a "“Tornatene a casa tua, islamica” merita condanne e non victimblaming"

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  1. se non blocca la fila e se non fa perdere tempo agli altri passeggeri in fila è possibile istituire delle cabine, detto questo e condannando nella maniera più assoluta il razzismo di quella funzionaria, non sarebbe male discutere se sia possibile una interpretazione più aperta di certe prescrizioni religiose (riservate solo alle donne). Detto questo, quella funzionaria on doveva agire in quel modo

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