Da una settimana circa le immagini del cranio maciullato di Alì Abd Allah Saleh stanno facendo il giro del mondo. Un colpo di arma da fuoco ha stroncato la sua fuga da Sana’a, ex capitale della Repubblica Araba dello Yemen del Nord. Ad aver rivendicato l’assassinio sono stati i ribelli zayditi Huthi che dal 2012 collaboravano non troppo segretamente con Saleh per spodestare Abd Rabbih Mansour Hadi divenuto ufficialmente presidente dello Yemen nel 2012 conseguentemente alle rivolte della Primavera Araba scoppiate nel territorio yemenita tra il 2011 e il 2012.
La relazione politica tra ribelli Huthi e l’ex presidente Saleh era stata positiva quel tanto da permettere al secondo di far fuggire Hadi verso il sud, nella roccaforte di Aden. Una relazione difficile ma molto remunerativa per entrambe le parti. Una relazione iniziata con il rifiuto politico dell’Arabia Saudita e terminata con la morte inaspettata di Saleh.
La domanda che si sono posti in molti, dunque, è cosa abbia spinto gli Huthi a mettere in atto un’azione così violenta ai danni di Saleh, se fino a una settimana prima era un continuo banchettare seduti allo stesso tavolo.
Per capire l’attuale situazione dello Yemen bisogna fare qualche passo indietro; bisogna tornare a quando lo Yemen era una terra divisa in due Stati e caratterizzata da processi storico-politici e sociali molto differenti.
Il Nord era riuscito a conquistare l’indipendenza nel 1918 divenendo poi Repubblica Araba nel 1962 e sotto il governo di Saleh dal 1978 in poi.
Il Sud invece aveva atteso che l’Inghilterra abbandonasse le sue lande concedendogli la libertà soltanto nel 1967: anno in cui questa parte di Paese aveva deciso di affiliarsi all’URSS.
Le tensioni tra nord e sud erano iniziate nel 1990 quando tutto il Paese era stato riunito sotto il governo di Saleh, il quale aveva da subito cominciato a mettere in atto politiche finanziarie ai danni della popolazione già ridotta nella miseria assoluta.
Proprio nel nord dello Yemen nel 1992 due fratelli zayditi avevano fondato un’organizzazione soprannominata “Gioventù credente” alla quale avevano aderito migliaia di uomini e adolescenti sciiti; due fratelli il cui cognome era proprio Huthi.
Dopo il 2003, con l’invasione dell’Iraq, gli Huthi si erano fatti sempre più pressanti organizzando adunate dopo la preghiera del venerdì e accusando l’America e Israele di voler distruggere la pace in Medio Oriente, nonché di volersi appropriare di terre e materie prime.
Accadde proprio dopo uno di questi incontri a Sana’a che Saleh volle incontrare Husayn al-Huthi per discutere con questi della crescente tensione nella città di Sana’a. Ma Husayn decise di declinare l’invito scatenando la collera di Saleh, il quale emanò un mandato di cattura nei confronti del ‘ribelle’.
Ebbe inizio così la rivolta degli Huthi contro il governo centrale: il 10 settembre 2004 Husayn al-Huthi morì assassinato e la lunga agonia della popolazione yemenita prese il suo avvio.
La lotta tra le due fazioni continuò sino al 2010 quando Saleh chiese agli Huthi di “posare le armi” per stabilire un dialogo politico produttivo ed equo; appello che venne accolto di buon grado in cambio di ampi permessi territoriali.
Gli Huthi si erano sempre avvalsi dell’aiuto dell’Iran sciita per tutto il corso delle lotte armate: un’alleanza che aveva visto partecipare anche Corea del Nord, Russia, Siria e il gruppo armato libanese Hezbollah. Saleh, dal canto suo, aveva chiesto aiuto all’Arabia Saudita che sin dall’inizio non aveva negato il suo appoggio con la volontà precisa di tenere l’Iran fuori dai confini. Ma quanto sarebbe durata la pace tra un gruppo armato sciita e un presidente sostenuto da governi sunniti?
Il 27 gennaio del 2011 il vento della rivolta arrivò anche in Yemen mobilitando cospicue masse della popolazione contro il governo centrale di Saleh. Povertà, malcontento, la guerra contro al-Qaida e le rivolte nel nord spinsero il popolo ad abbracciare l’ideologia mossa dalla Primavera Araba: 2000 civili morti in un anno di rivolta e oltre 200.000 sfollati. Al termine di questo ‘oscuro’ periodo storico, Saleh fu costretto a lasciare la sua poltrona dopo 33 anni di governo, abbandonato dai suoi sostenitori sauditi, e Hadi prese immediatamente il suo posto appoggiato dal popolo e dai governi internazionali.
Sembrava quindi che tutto dovesse cambiare, che la situazione potesse sistemarsi e stabilizzarsi: ma Saleh non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla possibilità di riconquistare il potere e chiese aiuto agli stessi Huthi contro i quali aveva combattuto sino al giorno prima e che avevano facilitato la sua ‘resa’.
Questi, spaventati dalla forza politica di Hadi che mirava a cacciarli dalle terre conquistate con fatica, non disdegnarono la mano tesa di Saleh.
Nel 2015 gli Huthi intrapresero una rivolta contro il presidente Hadi; una rivolta sanguinaria che creò un’alleanza potentissima tra Hadi e Arabia Saudita in conseguenza anche alle continue minacce da parte degli Huthi di invadere il territorio Saudita qualora questi non avessero smesso di perseguitarli.
Iniziarono così i bombardamenti, le uccisioni di massa, i rastrellamenti notturni e diurni.
L’Arabia Saudita venne immediatamente appoggiata dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’Egitto, dal Sudan, dalla Turchia, dal Regno Unito, dal Qatar, dagli Emirati Arabi Uniti, dal Pakistan, dalla Giordania e dal Kuwait. E la lotta si trasformò in una guerra senza trincee tra Huthi e “coalizione sunnita”. Una guerra che in 730 giorni ha causato 16.000 vittime (quelle conosciute).
La morte di Saleh è stata frutto di un errore di calcolo; la sua avidità mascherata da un finto interesse per le condizioni del popolo yemenita lo ha condotto, una settimana fa, a cambiare pubblicamente ‘schieramento’ e a mostrare il suo appoggio alla Coalizione sunnita: questo dopo aver compreso che la punta della bilancia stava pendendo troppo verso l’Arabia Saudita. Una decisione affretta e ingenua che gli è costata una pallottola in fronte.
Dall’inizio dei bombardamenti sono trascorsi due anni. Anni durante i quali la popolazione yemenita è stata decimata senza pietà. Prima i fucili, poi le bombe, l’embargo e infine il colera. Di quelle bellezze naturali, dell’arte, della storia e delle vite umane non è rimasto altro che detriti, polvere, cenere e grida di dolore. La morte di Saleh ha soltanto riaperto una ferita mai cicatrizzata. Oggi i media, il mondo, la politica internazionale e perfino l’ONU parlano della tragica situazione nello Yemen. Ma ci è voluto un cecchino e un morto ‘importante’ per aprire una finestra sulla sorte del popolo yemenita.
In questa vicenda non esistono i ‘buoni’. Tra avidità, potere, denaro e orgoglio a rimetterci la vita è stato solo il popolo; un popolo sfinito dalla fame, dalla povertà, dal dolore, dall’indifferenza.
La guerra in Yemen è considerata una tragedia di proporzioni gigantesche che non ha eguali nella storia delle tragedie umane. È una tragedia che si è risucchiata tutto: i sogni, i sorrisi, le matite colorate, i canti, la quotidianità.
Bisogna chiedere a chi ‘conta’, in questo mondo fatto di riverenze e galateo, di posare le armi. Bisogna chiedere all’Italia di boicottare la produzione di proiettili per l’esercito della Coalizione. Bisogna chiedere agli Stati partecipanti di ritirarsi immediatamente. Bisogna pretendere il dialogo. Il popolo yemenita è indifeso. Non esistono nascondigli dentro i quali rifugiarsi.
Posate le armi.
Ester Arguto