Il fascismo ha sbagliato quartiere – SLUM

È stata una giornata iper-adrenalinica. Se già ci era bastato Salvini, adesso Giorgia Meloni, nel quartiere più multiculturale e, visto l’insediamento di nuovi fondi innovativi, più “queer” di Livorno era proprio poco indicata. Dimostra che la suddetta, come ricordavano gli striscioni, la nostra città non la conosce affatto. Oserei dire che è un qualcosa di aggiunto alla lista di cose di cui parla, ma che non conosce se non con superficialità.

Il quartiere Garibaldi è la piccola ka’ba della Livorno popolare, della città vissuta e piena di tutto e di niente. Ormai, nella percezione di molti, da sempre un agglomerato di nazionalità: tra le vie costeggiate da vecchi palazzi colorati, di quelli che nelle foto dei nonni erano tali e quali, si svolgono le vite di famiglie livornesi e di tanti migranti, dal bengalese al guineiano, dal cinese al peruviano. Ho abitato lì più di dieci anni, sono cresciuta tra Via De Lardarel e Piazza della Repubblica, con la mano costantemente immersa nel cesto dei fagioli del droghiere e il profumo dei negozi etnici. Ci ho giocato da bambina, ci lavoro adesso, ci ho passato i momenti più tragici della mia vita. Da tempo sono parte della fioritura di un quartiere in rinascita, coi fondi aperti, le serrande dipinte, il lavoro di dialogo, di analisi, di accoglienza non solo degli arrivi più recenti, ma anche delle generazioni e degli abitanti “storici”. È in questo quartiere così vissuto che sono aperti spazi come il Boudoir, la Riusofficina o Ottodisco (e non solo), centri di aggregazione queer, femministi, d’una certa etica, dall’impegno per niente elitario e snob, ma volto tutto all’impreziosimento e al contatto umano che questa grossa e variegata concentrazione di persone richiede. Noi di questi fondi, dei tanti esseri umani che popolano queste poche strade, siamo sempre in prima fila e ogni risultato che otteniamo è la soddisfazione di un lavoro profondo e sudato. L’amore non è una questione di soldi, anche se può intrecciarsi con la politica.

Prima che arrivasse la Meloni, io ero in un’altra struttura ad aspettare tre bambine italo-cinesi (che usualmente sono quattro) per cominciare la lezione di uno dei doposcuola che curo. Appena sono stata avvertita dell’arrivo di questa, ho chiesto il permesso alle famiglie e alle mie alunne di poter partecipare tutte insieme, spiegandomi sul perché del dissenso della protesta. Direi che le mie bimbe sono rimaste molto contrariate sia sulle idee razziste, sia sulle idee omofobe, e hanno accettato questa nuova avventura. Quando siamo arrivate, la piazza era piena di persone, tante fattezze e personalità erano vicine a dichiarare la loro cocente indignazione. “Dov’eri durante l’alluvione? Speculi sulla pelle delle persone soltanto oggi?”. Lo striscione che pendeva dalla Fortezza Nuova, davanti agli occhi della statua di Giuseppe Garibaldi, parlava chiaro “Fascista, Livorno non ti vuole”. Le parole “fascismo”, “razze”, “intolleranza”, le mi’ bimbe sanno bene cosa vogliono dire, anche quella più piccola. Nonostante lo stress della folla arrabbiata, i fischi, gli slogan, siamo rimaste compatte, partecipi, abbracciate o per mano, a fianco di giovani, adulti, uomini e donne che hanno contestato l’anima “nera” di Giorgia Meloni. Nei video da lei diffusi sul web, quelli che si faceva a mo’ di selfie nel bel mezzo della manifestazione, fra un carabiniere e un manganello lucido, si sente solo la sua voce che ci canzonava e tutto il resto, ahimé, è strategicamente ovattato. C’era una rabbia decisamente giusta in quel momento, che non è quella impregnata d’ignoranza e supremazia ariana di certi insicuri, mediocri, fascisti seguaci della destra xenofoba italiana. Tant* di coloro che rendono questa città viva e vissuta e migliore erano lì a dare l’unica accoglienza possibile a chi tradisce la democrazia antifascista.

Di questa giornata, anche se sono volate notizie di fantomatiche bottiglie e strani sputi volanti, sono fiera. Sono fiera delle persone che erano lì con le migliori intenzioni e determinate a dimostrare di non poter tollerare l’intolleranza. Anche questa militanza è un barlume che mi convince di non dover mai smettere di avere fiducia e lottare.

Chiudo con una domanda più che legittima da parte della mia bimba di nove anni. Quando le ho detto “credo che per la Meloni io dovrei andare in qualche paese islamico e voi andarvene in Cina”, lei mi ha candidamente chiesto, con tutta la serietà e la compostezza di cui è capace: “ma ce lo paga lei il viaggio? No, perché io quest’anno vorrei vedere il capodanno cinese!”.

Sveva Basîrah

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