“Cosa dirà la gente”: la storia di Nisha è la storia di tutte noi – SLUM

Con il film Cosa dirà la gente, la regista norvegio-pakistana Iram Haq, come il suo personaggio e il suo specchio Nisha, ha accolto e ha dato fieramente risalto a delle consapevolezze e a un dolore difficili da portare sul grande schermo. Raccontare cosa sia la violenza di genere e cosa sia il possesso con un film drammatico e in parte autobiografico è un’impresa ben riuscita che vale davvero la pena di contemplare.
In questo film, un’opera che va al cuore della questione della violenza sulle donne, oggi ostruita e oscurata dal razzismo e dalle retoriche etnocentriste occidentali, e parlo di quelle che si preoccupano soltanto di addossare colpe a qualcun altro, vi è la storia di tante donne condensata in una soltanto, una storia brutale e complessa ma estremamente chiara nello svelare molte dinamiche di possesso e potere che dilaniano tutte le società e spezzano le vite delle donne.

La storia è quella di Nisha, interpretata dalla splendida Maria Mozhdah, una ragazza di origini pakistane costretta a vivere una doppia vita in Norvegia, irritata dal bigottismo della famiglia ma obbligata a tollerarlo e assecondarlo pur di poter segretamente vivere le emozioni normali d’ogni donna nel fiore dei suoi anni, per sentire fin dentro le ossa le vibrazioni delle esperienze, e crescere. Il fragile equilibrio che è riuscita a costruire negli anni si rompe improvvisamente: Nisha “macchia l’onore” della famiglia. Per pura sfortuna, il padre scopre la figlia in intimità con un ragazzo ed alza le mani pesantemente; per lui nessun biasimo, ma la giovane è accusata di aver ceduto ad un momento, a delle inclinazioni vergognose, senza pensare al dolore della famiglia, al loro buon nome e ai pettegolezzi, a quanto avrebbe dovuto esser grata ai sacrifici dei genitori per il suo futuro. Sì, come se i figli non fossero “figli della Vita stessa“, come scriveva il Profeta di Gibran, lei sembra dover la sua vita a chi l’ha cresciuta. Si decide di punirla “in modo che non possa farlo più”: rapita dal padre Mirza (interpretato da Adil Hussein), con la complicità della comunità e dei parenti, viene portata con la forza e lasciata in Pakistan per innumerevoli mesi in balìa della famiglia d’origine, incaricata di darle “una raddrizzata” e di farle finalmente perdere ogni ritrosia e abitudine “occidentale”.
Il film approfondisce il meccanismo della violenza psicologica più subdola e spontanea delle civiltà patriarcali. Come il “principe padre” de I Promessi Sposi, un altro personaggio che ci ricorda quanto sia antica l’oppressione maschilista sulle donne, Mirza si dimostra un padre amorevole e soddisfatto della sua perla finché essa non smette di essere lucente per lui, e perciò cerca di cambiarla con l’aiuto dei familiari.
La coercizione fisica sarà soltanto una minima parte degli abusi, perlopiù psicologici, che la giovane subirà; il degenerare del legame con una persona cara disorienta e inorridisce, ma quel che segue e si rivela con violenza è ancor più dilaniante: la manipolazione, la punizione, l’abituarsi a quello che a un certo punto vuole farsi passare come il suo destino, una strada obbligata, quell’assuefazione che la fa disperatamente affezionare a degli attimi illusori di vuota dolcezza tra un uragano e l’altro. Ad ingabbiare Nisha, come milioni di donne nel mondo, come “da tradizione”, sono le parole, i gesti, le colpe ingiuste addossatele e la compattezza di tutti coloro che la isolano, che la riducono ad essere succube degli eventi e tentano di farla sentire incapace di decidere per se stessa; sono la paura e il biasimo generale che corrodono dentro, spengono lo sguardo, incoraggiano a rassegnarsi, conformarsi, tollerare.

I parenti di Nisha, forse ancora i parenti di Iram, che da ragazza visse le stesse vicende raccontate (e questo rende la narrazione estremamente autentica), e tanto spesso i nostri, sono cresciuti in seno ad un sistema patriarcale fatto di gerarchie e alla cultura del possesso; essi ne sono parte, o conservano silenziosamente dentro di loro i semi di questa follia collettiva, pronti a germogliare prepotentemente nelle situazioni più difficili – come uno scandalo – situazioni frustranti, incombenti in un modo che non si è mai stati educati a elaborare, rigettare, decodificare. Cosa dirà la gente ci spiega che esistono uomini ed esistono donne che non capiscono fino in fondo cosa voglia dire “jaan”, l’amore di cui ci riempiamo tutti la bocca, né quale sarà l’effetto di un “gandi”, schifosa, ripetuto da generazione in generazione per annichilire le parti oppresse, ripetuto da chi ha un rancore enorme da sputare addosso all’ultima persona di una scala gerarchica; ci mostra che esiste un mondo, il tuo mondo, pronto a ignorare le tue resistenze finché non accetterai senza apparenti riserve tutto quello che ti propone “per il tuo bene”. Ma, infine, ricorda anche che esiste il momento in cui ci si può sottrarre alla violenza.

Non perdetevi questo film dai tanti spunti di riflessione e quando una delle frasi che sentirete vi rimarrà aggrappata al cuore, non cercate di dimenticarla. Accoglietela come dovreste accogliere il vostro dolore e la vostra consapevolezza profonda. Le storie degli e delle altr* possono sbrigliare i nodi delle nostre.

Sveva Basirah

Hva vil folk si.
“Oslo 20170815. I filmen “Hva vil folk si” spiller Maria Mozhdah (t.v.) hovedrollen i Iram Haq (t.h.) sin nye film. Foto: Lise Åserud / NTB scanpix”
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