Todi è soleggiata, il pomeriggio è inoltrato, la pelle ringrazia per le prime uscite senza maglioncino e dalle campagne umbre salgono odori di primavera e voli di pollini allergenici. Oggi mi sento particolarmente bene, perché nei giorni precedenti ho conosciuto Behnaz, Sveva, Giovanni e Manal. Le prime persone in vita mia conosciute tramite Facebook – circa un anno fa- e materializzatesi nella mia vita come se nulla fosse, come se fossimo sempre stati amici. Nella mattinata, all’ombra dei grandi lecci del Giardino del Frontone a Perugia, abbiamo fondato un’associazione. Questo pomeriggio ne abbiamo tutti il cuore pieno. Camminiamo assieme a Henrry, il mio compagno, al nostro amico Mamadou, agli amici di Manal e Giovanni.
Todi è una città aspramente ripida, la cui bellezza viene temporaneamente offuscata dalla fatica che i miei amici impiegano per spingere la mia sedia a rotelle fino in centro. Mi sento pesante. Vorrei chiedere scusa al sudore di Henrry e di Mamadou, me la prendo un po’ anche con il sole che batte impietoso su di loro. Eppure sento che, in fondo alla fatica, siamo felici. E abbiamo voglia di un caffè. E di un gelato, forse. Raggiungiamo a fatica una gelateria a metà strada tra la porta attraverso la quale siamo entrati in città e la piazza centrale. Il mio compagno e i miei amici si siedono a riprendere fiato, io finisco il caffè con dentro diluiti i miei sensi di colpa per aver preso chili, e la vaga paura che nessuno dei miei amici vorrà mai tornare a Todi dopo questa esperienza. La sensazione di malessere è piuttosto forte, ma di breve durata. Subito dopo ci troviamo esposti alle carezze di un piccolo vento, dal belvedere che permette di sprofondare con lo sguardo nella valle, prima di aprirsi sull’orizzonte. Ci facciamo delle foto. Siamo rumorosi, siamo bellissimi. L’amica dominicana e todina di Manal ha due bambini, due bambini dagli occhi di bosco, vivi come scoiattoli. Abbraccio Sveva, amo così tanto la sua presenza. Presto decidiamo di riprendere l’auto, perché lei ha un treno per Livorno che non vuole perdere – e che perderà lo stesso per pochi minuti, restando con noi ancora un giorno. Salutiamo Manal e i suoi amici, i bambini scoiattoli, e ci prepariamo ad una spericolata discesa.
Ma Giovanni decide di farci prendere un’altra strada, più lunga e più dolce. La camminata questa volta è scanzonata, rilassata. Parliamo di tutto, io parlo poco perché mi lascio assorbire da tutto ciò che vedo. Giovanni in testa, Mamadou al braccio di Sveva con la mia borsa per mano, io ed Henrry che li seguiamo. Gli occhi di tutti sono puntati su di noi. Sull’hijab turchese di Sveva, sulla sua vicinanza apparentemente coniugale con Mamadou. Sulla borsa da donna che Mamadou stringe in una mano, sulla sua pelle luminosa e scura che contrasta con il chiarore di Sveva. Sulla peruvianità di Henrry, sulla mia sedia a rotelle, sui nostri rapidi baci che confondono le idee sul nostro rapporto. Un badante che bacia la sua assistita? La trama dei legami è fitta, non scontata. Chi sembra una coppia non lo è, chi non sembra una coppia invece lo è. L’amicizia lega tutti insieme, la diversità dell’uno risplende negli occhi dell’altro. Attraversiamo un mercato, intrecciando le nostri voci in mezzo quelle dei venditori e delle persone che passeggiano tra le bancarelle. Mamadou saluta un suo amico che tiene una bancarella. Il suo amico ci guarda tutti, cerca di decifrarci, e di decifrare i rapporti tra noi. Lo salutiamo e continuiamo, il sole allunga le nostre ombre e ad incomincia il suo rituale dei saluti. Arrivederci Sole, vai ad illuminare l’altra metà del mondo, noi ti aspettiamo domani come ogni giorno.
Può darsi che faremo un’altra passeggiata. Tutti pronti a difenderci l’un l’altr* da un mondo che tende a dividere le persone in categorie e a tenere le categorie ben distanziate tra loro.
Moira De Grisogono
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