L’articolo è stato proposto nel Gruppo di Abbatto i Muri e SLUM lo ha tradotto e pubblicato, thnx AiM!
Articolo originale (qui) di Vanessa Taylor pubblicato su Wear Your Voice, traduzione dall’inglese di Irene Favalli
* grazie a S. per la precisazione!
I nostri corpi sono tutti letti all’interno di contesti politici e sociali, ma alcune di noi non sono mai nient’altro che corpi
“Grazie di essere venuta”, mi diceva una persona bianca stringendomi impaziente la mano. Eravamo al Pride 2016 e io ero l’unica persona musulmana nei paraggi. Solo qualche minuto prima ero stata presa di mira da uno dei soliti gruppi anti-Pride che costellavano l’area, e i loro insulti puntavano tutti al fatto che ero una donna nera e musulmana. Si era anche radunata una folla, ma nessuno sembrava voler fornire una qualche assistenza o aiuto. La persona che aveva deviato così tanto dal marciapiede per trovarmi dove stavo seduta e stringermi la mano, come se fossi una vista rara, mi ricordò perché una folla sarebbe rimasta a guardare mentre io subivo un abuso.
Per poco non chiesi perché mi stavano ringraziando. Volevo che ammettessero che pensavano che quello non fosse il mio posto. Forse pensavano che quella fosse la mia prima volta a contatto con la comunità LGBT+ e che preferivo stare seduta per riuscire a vedere tutto quanto. E non perché, durante il digiuno, ero stata chiamata puttana, terrorista e anche di peggio da uomini bianchi che cercavano di intimidirmi avvicinandosi sempre di più, e quindi avevo bisogno di riprendermi perché questo tipo di abuso ti rende fisicamente esausta. Volevo che dicessero chiaramente perché, anche assumendo che io non appartenessi a quel posto, avrebbero dovuto ringraziare proprio me. Volevo che ammettessero esplicitamente che io rappresentavo l’Altro.
Il Pride 2016 non è stata la prima volta che ho avuto un’esperienza simile, né sarà l’ultima. In altri eventi sono entrata in spazi LGBT+ ben conscia di come le persone mi stessero guardando, come se stessero aspettando di vedere cosa avrei fatto. Sembrava che esistessi sono come un’alleata ignorante e superficiale o come un nemico dichiarato, ma non sono mai stata vista come un membro effettivo della comunità.
Perché, nonostante molti spazi LGBT+ si ritengano radicali per aver occasionalmente riconosciuto Stonewall, sono invece arrivati a riprodurre le stesse dinamiche che producono discriminazione e violenza contro le persone queer, in particolare un’alterità che deriva direttamente dall’essere anti-neri e islamofobi.
Parte della gioia del Pride deriva dal poter essere se stessi. È permesso rifiutare le norme sociali, mostrarsi come si è e come si vuole – o come si dovrebbe essere. Quando andai al Pride quell’anno indossavo un’abaya (una tunica larga e lunga fino ai piedi, NdT) perché era anche Ramadan e avevo bisogno di indossare qualcosa con cui in seguito avrei potuto pregare. Dopo essere arrivata ai cancelli mi tolsi l’abaya nera, perché sapevo che tenerlo avrebbe spaventato la gente. Il mito che tutti i musulmani sia eterosessuali e omofobi persiste, cosa che crea una sorta di eccezionalità nell’essere queer. Improvvisamente, solo gli Occidentali sono davvero in grado di essere queer, e tutti gli altri è un ally o qualcuno che aspetta un salvatore bianco che si accorga del suo essere queer. Quando entro in uno spazio LGBT+ indossando uno stile di hijab facile da riconoscere, il mio corpo e il modo in cui è vestito vengono percepiti come minacce. E se non sono un nemico, allora mi si deve insegnare ad essere deviante in modo corretto. Perché, affinché qualcosa sia deviante, prima deve esserci un modo di essere normale. Nonostante tu sia benvenuto a mostrare te stesso al Pride, devi comunque scegliere da una lista di “se stessi” pre-approvata.
In “Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times”, Jasbir Puar scrive “l’essere queer come trasgressione (cosa che è un passo Avanti rispetto alla resistenza, che è ormai diventata un atto normativo) fa affidamento ad una nozione normativa di devianza, sempre definita nel suo rapporto con la normatività stessa e spesso in modo universalizzante.” Puar chiarisce come una trasgressione (dell’eteronormatività o dell’americanità) risulti definita in un modo estremamente specifico che, a sua volta, pone limiti a cosa sia o non sia la trasgressione o l’essere queer. Nonostante l’hijab negli Stati Uniti sia una trasgressione, non è quella giusta per essere letta come queer.
Mentre la contemporanea comunità LGBT+ si aggrappa all’essere queer come un’estetica della devianza, fallisce nell’esaminare a chi concede benefici e priorità. Nel suo sforzo di essere deviante, la comunità LGBT+ potrebbe ritrovarsi a imitare il comportamento dello Stato attraverso gatekeeping, annullamento e cancellazione. Un esempio, come scrive Puar, è “l’ascesa dell’islamofobia omonormativa nel nord del mondo, ovunque uomini gay, omonormativi e queer possano mettere in atto forme di appartenenza nazionale, razziale o altro, contribuendo così a denigrazione collettiva dei musulmani.”
Omonormatività è un termine che si riferisce alla continua difesa di standard e istituzioni eteronormativi all’interno delle comunità LGBT+. Un esempio comune è la spinta al matrimonio, che imita la struttura eteronormativa dell’atto e lo dipinge come la conquista definitiva dei diritti omossessuali. Inoltre, l’omonormatività dà forza alla regolamentazione della comunità LGBT+. Attraverso l’eccezionalismo americano, cioè l’ideologia che dipinge gli Stati Uniti come unici (e superiori) nei confronti del resto delle nazioni non occidentali, Puar identifica come l’omonormatività si possa trasformare in omonazionalismo.
L’omonazionalismo, cioè questa denigrazione delle altre nazioni, dipinge i musulmani come estremamente omofobi e dichiara l’Occidente l’unica entità in grado di civilizzarci fino a farci perdere la nostra sessualità barbarica, sia essa repressa o pervertita in altri modi. Qualora i musulmani LGBT+ vengano riconosciuti, siamo presentati come scoperte moderne, invece di essere considerati membri di comunità che sono esistite a lungo al di fuori del mainstream, soprattutto perché non avevamo mai avuto bisogno della “guida” dell’Occidente. È stato proprio il colonialismo bianco a costruire quella binarietà di genere anti-nera con cui dobbiamo fare a pugni oggi. Ciò che l’Occidente ignora è la sua stessa transfobia e omofobia.
Mentre alcuni possono pensare di tirarsene fuori dicendo o pensando “Oh, io no, a me piacciono i musulmani”, è comunque la denigrazione nei nostri confronti che rende la mia presenza al Pride così unica da far pensare a qualcuno che sia necessario ringraziarmi di essere lì. Probabilmente pensavano che altrimenti non mi sarei sentita apprezzata per il mio presunto sostegno. Forse non sarei mai potuta tornare a quella che per me era stata un’esperienza straniante ed educativa. Magari, se non mi avessero fatta sentire accolta, avrei progettato il prossimo attentato terroristico.
Tuttavia è importante mettere in luce la realtà specifica dei musulmani neri, dato che la maggior parte dei discorsi su musulmani e islamofobia non lo fa. L’islamofobia contro i neri dev’essere situata nell’aldilà della schiavitù di Saidiya Hartman (link alla citazione qui), dove le vite dei neri “sono ancora messe a rischio e svalutate da un calcolo razziale e un’aritmetica politica che sono state create e fortificate secoli fa.” Questo assetto è stato illustrato da Delice Mugabo (link alla fonte qui), che dimostra come, dato che i neri sono esclusi dalla categoria dell’umano e la religione è propria dell’uomo, allora le religioni nere non possono essere considerate. Di conseguenza i musulmani neri vengono lasciati al di fuori della sfera politica, nonostante si trovino ad avere a che fare con un’islamofobia unica, derivante dal nostro essere neri e musulmani contemporaneamente (link alla fonte qui).
Negli spazi LGBT+ sono sempre ben consapevole di cosa stia venendo scritto sul mio corpo. Mentre la comunità mainstream afferma di essere aperta a tutti, o di combattere contro le proiezioni non accettate, io comunque non sono accettata come suo legittimo membro. Perché, oltre all’identità, nell’immaginario occidentale i musulmani neri non sono visti come dotati di indipendenza sessuale. Nonostante Puar scriva che la sessualità musulmana è vista come chiusa e repressa, la sessualità delle donne nere musulmane è letta attraverso una serie di stereotipi misogini e islamofobi, andando così a formare una delle componenti dell’islamofobia anti-neri. Il Jezebel’s trope (link alla fonte qui) , ad esempio, dipinge le donne nere
come dotate di un insaziabile appetito sessuale. È lo stereotipo usato storicamente per sostenere che esse non potessero essere considerate vittima di stupro o di altre forme di violenza sessuale. Ma, in modo ancora più specifico, è questo stereotipo che ha creato l’idea delle donne nere come figure senza indipendenza o controllo sessuale, cosa che continua ancora oggi. Siamo ancora devianti sul piano del sesso; siamo ancora sessualmente irresponsabili; non siamo davvero nemmeno un “noi”, ma solo oggetti.
Mugabo cattura parte delle esperienze delle donne nere musulmane scrivendo “la femminilità araba, asiatica e persiana che gli islamofobi e i loro colleghi giurano di difendere e promuovere è la stesse femminilità che le donne nere non hanno più posseduto dall’avvento della schiavitù in poi.” Mentre le donne musulmane non nere devono fare i conti con un’estensione di genere dell’islamofobia, che include la fissazione dell’hijab e e la visione dell’Occidente come salvatore, le donne nere e musulmane devono fare i conti con un’esistenza da leggenda urbana. E per noi donne musulmane, nere e queer, la cui esistenza non può nemmeno essere compresa, i nostri corpi si trovano in uno stato di eccezionale precarietà, ipervisibilità e invisibilità. Questo è il perché, durante lo stesso Pride, ho visto uomini bianchi chiamarmi troia senza che nessuno facesse niente e una persona bianca ringraziarmi di essere lì e stringermi la mano, come se quello spazio non mi appartenesse. Non sono gelosa del paternalismo bianco e non me lo vado a cercare. Ma, come donna nera e musulmana, non ho accesso al tipo di sessualità musulmana che potrebbe essere vista come bisognosa di protezione. Il mio corpo non è qualcosa che potrebbe essere minacciata, perché non è visto come degno di protezione dalle minacce. Nonostante mi stessi sforzando di non interrompere il mio digiuno al Pride, disidratata, affamata ed esausta, non ero vista come una persona che potesse essere ferita.
La mia comunità LGBT+ esiste nelle chat e nelle sessioni serali di gruppo tra musulmani neri. Forse c’è dell’ironia nel fatto che la mia comunità si è formata online, al di fuori di corpi e spazi fisici. Noi ci comprendiamo l’un l’altro, ma nessuno sa cosa farsene di noi. È troppo stancante avere costantemente a che fare con l’aspettativa di cambiare se stessi, ripiegarsi, fare qualcosa di più accettabile per un movimento che replica le politiche di islamofobia razzista responsabili dei tuoi dolori fisici e mentali. Quindi
passiamo a Whatsapp e a scambiarci battute.
È strano essere in un corpo che viene pensato come sempre senza dolore. Le donne nere devono essere in grado di prendersi cura di sé, soprattutto ora e in clima politico che urla “ascoltate le donne nere!” in modo
da renderci giustamente muli al servizio del movimento. Come organizzatrice in Twin Cities (nelle c.d. “città gemelle” di Minneapolis e St. Paul, ndr*), ho dovuto avere a che fare con le mie aspettative di essere invincibile. Ad un certo punto mi ammalai per un mese, tanto che un amico mi disse che ad ogni colpo di tosse “sembrava che stessi facendo nascere i [miei] polmoni”. Mi imponevo comunque di andare avanti. Ora mi permetto di essere una donna nera, musulmana, irritata e stanca.
I nostri corpi vengono letti tutti all’interno di contesti sociali e politici. Ma alcune di non sono mai nient’altro che corpi. Siamo ridotte ad un uno stato di non esistenza, in cui i nostri corpi non sono che oggetti da usare, scartati e scambiati per il nuovo modello intercambiabile. Come sintetizza Mugabo, essere umano è essere qualunque cosa tranne nero. Quindi capisco perché le persone si possano meravigliare di vedermi al Pride. Infatti non dovrei esistere lì, e la maggior parte delle persone non è abituata a vedere i fantasmi al di fuori del cimitero.
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