Questo articolo è stato scritto da Natalie Morris per METRO.co.uk (lo trovate qui) e tradotto da Giulia Davoli per SLUM.
Fare esperienza di razzismo nella vita di tutti i giorni ha un impatto pesante e cumulativo sul benessere sociale, mentale ed emozionale.
Ma ciò che viene meno frequentemente discusso è l’impatto psicologico dannoso del dover costantemente spiegare cos’è razzista – o perché qualcosa è razzista.
Che si tratti dell’ignoranza del capo o dei colleghi, delle domande interessate degli amici o di quelle ostili come riprova quando si cerca di articolare un esempio di ingiustizia – le persone di colore vengono usate spesso come una sorta di database di riferimento per il razzismo. E, in un mondo in cui esiste Google, dover spiegare il razzismo sembra un fardello del tutto non necessario da porre sulle spalle delle persone che lo subiscono.
Nelle ultime settimane ci sono state delle conversazioni online, vitali e sfumate, sui lati negativi del “dibattere” sul razzismo in spezzoni in TV e in radio – e molti giornalisti e commentatori di colore stanno rifiutando gli inviti a discutere di ciò in diretta.
“Dibattiti in TV e in Radio che chiamano chi non ha mai subito razzismo…i quali cercano furiosamente di smentire quelli che invece lo hanno subito” scrive la commentatrice di ITV Charlene White su Twitter. “Che dicono a loro cosa sia il razzismo. La loro sfacciataggine è vergognosa.”
“Trovo che molte discussioni in TV sulla razza siano davvero tristi da guardare” ha aggiunto la giornalista Nadine White. “Molti – davvero molti – sono formulati per far sembrare che l’esistenza del razzismo sia un leggittimo soggetto di dibattito. Non lo è. Il gaslighting giustificato delle persone of colour deve finire.”
Kimberly McIntosh, ufficiale di polizia al Runnymede Trust per l’uguaglianza della razza, dice che il problema è che spiegare cosa sia il razzismo, in una forma reale o sostanziale, è quasi del tutto impossibile nei pochi brevi minuti di una trasmissione in diretta.
“La maggior parte delle trasmissioni sui media sono interessate unicamente a parlare di razzismo in termini riduttivi,” Spiega Kimberly. “Di solito rifiutiamo di commentare se una particolare celebrità o un evento è, o è stato, “razzista”. Queste non sono opportunità per discutere l’impatto sulle opportunità lavorative delle persone o la perdita di dignità che deriva dall’essere pubblicamente accusati.”
Kimberly aggiunge che i produttori di questi “dibattiti” vogliono commentatori come lei che discutano su una “guerra culturale” che esiste solo perchè se la sono costruita da soli.
“Il peso di questo panorama mediatico, senza senso e imbarazzante, è che le persone di colore si trovano in un doppio vincolo” spiega lei. “Se parli in uno di questi dibattiti, verrai posto contro ad un uomo che non sa niente dell’argomento ma che è bravo a usare frasi ad effetto per i social. Per cui finisci in diretta TV, cercando di spiegare il razzismo, ancora una volta silenziata da qualcuno che ha poca o nessuna conoscenza o esperienza personale. Ed è oltremodo stancante andare incontro a tutto ciò. I produttori dovrebbero smettere di usare le minoranze per foraggiare la rabbia a colpi di click,” spiega Kimberly. “E’ evidente che il razzismo è reale, quindi basta porlo come se fosse un ‘dibattito’; il razzismo non è intrattenimento.”

Ma il peso del dover spiegare il razzismo non si limita a queste discussioni esagerate sulle piattaforme di broadcast, accade alle persone nella loro vita di tutti i giorni, nel loro gruppo di amici, nelle interazioni romantiche e nelle relazioni professionali.
Il professor Binna Kandola, psicologo e co-fondatore della consulenza per diversitá Pearn Kandola, dice che l’impatto di questo fardello puo’ essere “significativo” e portare addirittura a depressione e seri problemi di autostima. Spiega che parte del problema deriva dalla natura insidiosa e subdola del razzismo in questa nazione – e dalla credenza sbagliata che la disuguaglianza razziale non sia più un problema. Il razzismo si presenta in molte forme, e si manifesta spesso come un sentimento, o un qualcosa di intangibile. Ma quando molte persone credono che il razzismo sia semplicemente chiamare qualcuno con “la parola con la N” o “la parola con la P”, le forme piu’ subdole di discriminazione possono essere ignorate o non viste.”
Il professor Kandola aggiunge che quando il razzismo è nascosto e piu’ difficile da determinare, solitamente ricade sulle minoranze il compito di indicarlo e spiegarlo.
“Il razzismo si è evoluto, diventando piu’ subdolo ed è quindi piu’ difficile opporsi.” ci riferisce il prof. Kandola. “Difficilmente tolleriamo un linguaggio razzista o un abuso come magari facevano le precedenti generazioni, ma nei posti di lavoro, per esempio, l’esistenza del pay gap razziale e la scarsa rappresentazione di BAME (Black, Asian and minority ethnic) a livello dirigenziale mostra quanto lavoro ci sia ancora da fare per raggiungere la vera uguaglianza.”
Discutere e spiegare il razzismo non solo è un peso per i lavoratori delle minoranze etniche, ma puo’ essere anche pericoloso. C’è la paura costante che una rivendicazione non sia presa in considerazione, e di poter essere etichettati come difficili o accusati di “giocare la carta della razza”.
Parte di una ricerca condotta da Pearn Kandola nel 2018 ha riscontrato come un terzo delle persone nere e asiatiche (rispettivamente il 34% e 36%), non intervenga quando assiste ad un atto di razzismo. Fra gli intervistati che hanno risposto che non sarebbero intervenuti, i due-quinti (39%) hanno detto di essere frenati dalla paura delle conseguenze del loro atto.
“E’ chiaro, dunque, quanto la credenza diffusa che il razzismo non sia piu’ un problema e il non riconoscimento di una qualsiasi lamentela, rischi di avere un impatto significativo sull’autostima e sul benessere generale delle minoranze.” spiega il Prof. Kandola. “A lungo andare, c’è il rischio che le minoranze accettino gli stereotipi con i quali vengono etichettati a riprova di cio’ che rappresentano e cio’ che possono ottenere. Questo tipo di accettazione non solo getta le basi per problematiche legate alla salute mentale, come la depressione e la sindrome dell’impostore, ma continua a rinforzare il problema del moderno razzismo.”
Il Professor Kandola aggiunge che siamo ben oltre il creare conversazioni sulla razza, che quello di cui abbiamo realmente bisogno è la voglia di ascoltare, e imparare dalle esperienze vissute dalle persone di colore.
“Dobbiamo lavorare per costruire una cultura che sia psicologicamente sicura, in cui le persone possano denunciare il razzismo senza paura. Una cultura in cui stiamo dalla parte delle vittime di razzismo anziché ignorarle.”
Il Dr Chi-Chi Obuaya, consulente psichiatrico al Nightingale Hospital di Londra, spiega che la marginalizzazione o la percezione di ciò fra la popolazione di immigrati neri o di altre minoranze etniche ha ripercussioni sulla loro salute mentale. Spiega, infatti, che il tasso di psicosi tra le minoranze etniche nel Regno Unito è più alto, e che molte più ricerche dovrebbero ricercare come vivere e dover spiegare il razzismo possano esserne la causa.
“Alcuni studi sulle popolazioni Afroamericane negli Stati Uniti hanno dimostrato come subire razzismo possa avere un impatto negativo sia sulla salute mentale che su quella fisica, includendo misure volte al benessere.” aggiunge il Dr. Chi-Chi.
Espone, poi, un concetto che può spiegare il cosiddetto “luogo di controllo interno”.
“Si tratta dell’abilità di possedere un senso di controllo sulle circostanze che ognuno vive e sulle opportunità che può avere, ed è stato dimostrato il suo impatto positivo sulla salute mentale. Al contrario un “luogo di controllo esterno”, dove il soggetto ha minor controllo su questi fattori, dimostra avere un impatto negativo sul benessere mentale.”
Se la perdita di controllo influisce negativamente sul benessere mentale, non c’è da meravigliarsi che la richiesta costante di spiegare il razzismo possa diventare un peso psicologico. Quando qualcuno nega l’esperienza di razzismo, si perde il controllo sulla propria narrativa, e sulla propria comprensione di ciò che si vive; il che è, come minimo, destabilizzante.
Reni Edo-Lodge ha pubblicato, nel 2017, Why I’m No Longer Talking to White People About Race (Perché non parlo più della razza con le persone bianche); il titolo da solo mette in luce lo sfinimento e l’esasperazione che derivano dal cercare di spiegare il razzismo alle persone che non possono – o non vogliono – capirlo. “Non riesco più ad innestarmi nel vortice disconnesso dalle emozioni che mostra una persona bianca quando una persona di colore articola la propria esperienza” scrive Reni nel 2014 in un post virale sul suo blog, da cui deriva in seguito il libro. Reni articola perfettamente l’accumulativo sfinimento emozionale del cercare di ragionare con persone “che si rifiutano di accettare e legittimare il razzismo strutturale e i suoi sintomi“. E’ l’equivalente psicologico di sbattere la testa contro un muro di mattoni. Ma, dopo tre anni in cui il libro di Reni è diventato best-seller, molti di noi si trovano ancora ad avere queste conversazioni scomode e prosciuganti con le persone con cui abbiamo a che fare.
Kimberly spiega come l’impatto del libro di Reni sia stato comunque d’aiuto, e come stia iniziando a vedere un cambio di rotta nel modo in cui le persone con cui ha a che fare si approcciano alle conversazioni sulla razza; spiega anche di avere meno interazioni che la lasciano mentalmente stremata e di trovare più facile lasciare una conversazione se qualcuno si rifiuta di capire.
“Non è cosi’ in tutti i casi, ma libri come quello di Reni hanno realmente aiutato alcuni di noi a lasciar andare quel peso.” riferisce. “Molte persone nella mia vita comprendono le cose basilari, e quelli che non erano interessati li ho eliminati gradualmente. Il fardello era pesante e non voglio passare il mio tempo libero ad irritarmi. Ognuno di noi ignora qualcosa. Ma non sforzarsi di capire, quella è un’altra cosa.”
La parte piu’ difficile del peso di dover spiegare il razzismo è il conflitto tra il voler aiutare a migliorare una situazione, e il bisogno di proteggersi emozionalmente.
E’ importante ricordare che non dobbiamo combattere tutte le battaglie.
Se l’impatto psicologico del dibattere le proprie esperienze di vita è troppo, va bene allontanarsi dalla battaglia.

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