L’antispecismo sarà un movimento intersezionale e inclusivo, o non sarà – SLUM

Per molt* l’antispecismo sembra una lotta per la liberazione solo e soltanto finalizzata alla liberazione dell’animale non umano, nonché esclusiva dell’eredità di altri movimenti. In verità, l’antispecismo è un movimento che contempla l’intersezionalità nella propria formulazione e negli ambienti di lavoro, sebbene, spesso e volentieri, tale valore fondamentale sia criticato e messo in dubbio da una porzione non rilevante di attivist*. Anche organizzazioni internazionali ben visibili, di cui parleremo in questo articolo, hanno visioni molto limitate (e tossiche).

Come attivist* femminist* e antispecist*, crediamo che attraverso l’intersezionalità si possano gettare le giuste basi per intraprendere un percorso insieme verso quel che chiamiamo Liberazione Totale.
Questo manifesto vuol rivolgersi agli/lle/* attivist* antispecist*, ma è sicuramente informativo anche per chi ancora non conosce bene l’argomento della lotta per la liberazione animale.

immagine di copertina: @ro.tangerine

Cos’è l’intersezionalità

Citando l’attivista Sueli Carneiro, parlando di femminismo intersezionale – e in particolare dell’intersezione nell’essere donna e nera:

«Raggiungere gli stessi diritti significa diventare un essere umano pieno di possibilità e opportunità oltre la propria condizione di razza, genere e altre caratteristiche. Questo è il significato finale di questa lotta.»

È importante distruggere tutte le dinamiche di potere e di conseguenza abbiamo bisogno che l’antispecismo inizi a interfacciarsi, come da origine, agli altri movimenti di liberazione – ricordando che questo nasce sulla scia degli altri movimenti e filosofie già esistenti.

Il termine intersezionalità viene coniato nel 1989 dalla docente universitaria Kimberlé Crenshaw che in un articolo accademico analizzò i meccanismi dello svantaggio delle donne nere facendo riferimento alle leggi antidiscriminatorie, al femminismo e alle politiche anti-razziste.
Secondo la Crenshaw, le condizioni di oppressione sociale venivano trattate come appunto “sezioni”, perciò senza legami tra loro, e che quindi non veniva preso in considerazione il modo in cui queste categorie potessero interagire tra loro.

Oggi intendiamo l’intersezionalità come uno strumento di lotta attiva che dobbiamo considerare tessuto connettivo di ogni impegno contro ogni tipo di violenza e discriminazione. Dobbiamo quindi visualizzare l’adozione di questo metodo di lavoro come la chiave per avere un ambiente di attivismo sereno, eterogeneo, pieno di idee ed esperienze utili a conseguire degli obiettivi comuni e specifici.

Le discriminazioni sono simili e collegate

Le violenze, le oppressioni, lo sfruttamento e le discriminazioni sono sistemiche, performanti e spesso istituzionalizzate; le dinamiche di potere sono tra loro simili, ad esempio c’è una correlazione tra chiamare un ragazzo “femminuccia”, stereotipare gli uomini omosessuali come “effemminati” e il maschilismo: se consideri, anche sottilmente, una donna come qualcosa di meno, tutto quello che assomiglia alla donna e al “femminile” sembra qualcosa di meno. L’effemminatezza diventa una debolezza, essere delicati e poter piangere diventa una cosa solo femminile e gli uomini “poco virili” sono presi in giro o emarginati. Questi temi sembrano lontani tra loro, ma guardando meglio il maschilismo e l’omofobia sono molto collegati.
E ancora, a proposito di intersezioni, gli/le/* attivist* afrodiscendenti hanno trovato molte analogie tra il razzismo, lo schiavismo dei neri in America e lo specismo!

Immaginiamo lo sfruttamento come il seme di una pianta infestante, la cui pianta si affaccia in ogni ambito della vita degli esseri viventi, stritolando umani e animali non umani con le sue estensioni. Ogni persona e gruppo coinvolti e schiacciati poteranno i rami che pendono sulla loro testa, e collaborare significa così che ognun* mangerà la pianta fino al seme, e aiuterà altr* a farlo per, un giorno, sradicare completamente il germe della sovradeterminazione.
Abbiamo un obiettivo comune: sgretolare il problema alla radice.

Siccome le discriminazioni sono diverse tra loro, e le prime persone (umane e non umane) a poterne parlare e/o quantomeno fare la resistenza sono le prime che le subiscono, per supportare chi gestisce in prima persona problematiche diverse dalle nostre, bisogna essere degn* alleat*.
Può sembrare astratto per alcun* attivst* sedicenti antispecist* come noi, ma ricordiamo che noi antispecist* siamo già alleat* degli animali non umani e riconosciamo la loro resistenza, sappiamo di dover agire per loro e nel pieno rispetto delle loro volontà e delle loro vite.
La collaborazione intersezionale di cui stiamo parlando è qualcosa che mettiamo già in pratica, e dobbiamo essere coscienti che il nostro lavoro è parte di un grande quadro di lotta verso la decostruzione di ogni dinamica di potere e la liberazione totale.

Attingere dalle esperienze degli altri movimenti

Arriviamo a toccare la questione della specie, dove l’antispecismo è un movimento rinnovatore; tuttavia allo stesso tempo racchiude le lotte già in corso ed è assolutamente importante che gli/le/* attivist* antispecist* abbiano cura di confrontarsi con altri movimenti specifici e collegati, già attivi nella decostruzione delle dinamiche di potere, per avviare percorsi condivisi di analisi in un’ottica di reciproco confronto orizzontale e cooperativo al fine di raggiungere e demolire alla radice le dinamiche di potere alla base di ogni discriminazione.

È già noto che i principali movimenti per la liberazione, o semplicemente i più attivi e funzionali, siano intersezionali – in particolar modo possiamo far riferimento a moltissimi movimenti femministi odierni, teorizzati e messi in pratica da individui (non solo donne) che sperimentano sulla propria pelle le discriminazioni multiple (donna e nera, persona trans e povera, etc) e ideano continuamente strategie e rivendicazioni estremamente funzionali e interconnesse.
Questi movimenti si ispirano al concetto di intersezionalità, e il confronto e la contaminazione continua e consensuale dell’uno con l’altro può essere profondamente stimolante per ogni lotta.

È anche vero che, purtroppo, manchi un’intersezionalità totale in molti movimenti che si ispirano a questo concetto fondamentale per la loro nascita e crescita, ma è tuttavia bene ribadire che questo non significa che non possiamo ambire alla completezza dei nostri movimenti – esattamente come hanno pensato le ecofemministe degli anni ’70 e come continuano a elaborare le transfemministe che si occupano di TUTTI i corpi e i territori in movimenti globali e locali come Non Una Di Meno, movimento femminista apertamente intersezionale e che in Italia ha il tavolo antispecista nazionale sui Corpi e i Territori.
Niente ci legittima, di conseguenza, a rigettare l’intersezionalismo e niente giustifica il disfattismo riguardo la capacità e le possibilità di abbracciarlo.

A proposito di disfattismo…

Vi è un’accusa insidiosa da parte di alcun* attivist* antispecist* non intersezionalist*, è quella del “purismo”. Quante volte abbiamo sentito dire “non potete liberare tutti, concentratevi sugli animali!”?
La polemica sul purismo viene spesso usata dai passanti ai cubi (raggruppamenti di persone che, in strada, reggono uno schermo in cui passano immagini di macelli e allevamenti intensivi) come un’autodifesa dalle argomentazioni e dai fatti scomodi per la loro comfort-zone (es. «non potrai mai essere vegano al 100% e quindi non ha senso/non è necessario che io lo sia»).
In generale parlare di purismo mistifica la realtà dei fatti e delle intenzioni, dato che sappiamo bene che una situazione di completa liberazione sia al momento astratta e inattuabile, poiché la società con i suoi limiti e le sue imposizioni ci impedisce di raggiungere una “coerenza” più elevata.

Accusare altr* attivist* di essere purist* (in accezione negativa), è come accusare chi parla di anticapitalismo di essere incoerente perché in possesso di un cellulare. In verità non possiamo totalmente sottrarci al sistema e alla cultura capitaliste e speciste, essendo queste particolarmente invasive e parti ancora imprenscindibili delle nostre vite – tuttavia possiamo continuare a lottare.

Ergo, va considerato un approccio intersezionale e antisistemico «ove sia possibile e praticabile», valorizzando gli sforzi di ognun* di noi e aiutandoci a migliorare.

Costruire un safe space districandoci tra i privilegi

A proposito di aiutarci e di migliorarci, parliamo anche di safe-space (spazio sicuro), elemento fondamentale per garantire la sinergia e la serenità che rendano l’attivismo più efficace: la creazione di un safe-space permette al gruppo di attivismo di creare sinergia ed evitare la manifestazione di dinamiche di potere: è importante riconoscere che ognun* di noi abbia interiorizzato una cultura di sovradeterminazione che non si smette mai di decostruire.

Un safe(r) space (uno spazio più sicuro) è un luogo accogliente nei confronti di chi vuole unirsi all’attivismo senza rischiare di essere discriminat* perché aventi origini extra-nazionali, orientamento sessuale e/o identità di genere non normate, un corpo non conforme, appartenenza a una minoranza religiosa e così via; nel momento in cui non si dà rilevanza all’inclusione e non si regola l’esclusione di ideologie discriminatorie, si nega a prescindere l’accesso o si rende pericolosa la permanenza di chi appartiene a una minoranza o a un gruppo discriminato.

Per essere pratici, proprio in questi anni gli/le/* attivist* of colour denunciano una prevalenza di persone bianche che escludono e oscurano le persone nere che hanno e continuano a teorizzare e mettere in pratica l’antispecismo. Ascoltare quest* attivist* è importante e può aiutarci a riconoscere dei comportamenti che tra noi animali umani sono scorretti: può l’antispecismo opporsi alla violenza sulle altre specie ma non sulle altre etnie, colori di pelle, origini? Può essere “bianco” (o eclusivo per altr*)?Appare come un controsenso crudele e politicamente intollerabile.

È fondamentale tramite autocoscienze collettive e riflessioni personali (e anche intime, se vogliamo) prendere coscienza dei propri privilegi e degli effetti generati da un uso di questi indiscriminato o incosciente, per poi poterli riusare a favore delle persone vicine e delle cause per cui siamo attiv*. Per fare un esempio familiare, anche soltanto la creazione di casse comuni, oltre a essere un segno di solidarietà e un ottimo mezzo per favorire l’attivismo di chi non potrebbe altrimenti farlo per ragioni economiche, è sempre stato un modo per arginare i limiti economici che non tutti subiscono. Chi infatti gode anche solo di una piccola disponibilità economica in più, e aiuta il/la/* compagn*, sta usando il proprio piccolo, grande privilegio a favore di qualcun* altr*.

Approfittiamo anche per specificare che la lotta all’ageism (discriminazione per età) ci aiuta a decostruire le gerarchie, il paternalismo e la sovradeterminazione all’interno degli ambienti di attivismo. I nuovi movimenti sono pregni di giovani e meno giovani, tutt* differentemente navigat*, nat* in periodi di lotta diversi e sinergici nello scambiarsi esperienze politiche e di vita. La lotta funzionale dipende anche dalla collaborazione inter-age, ovvero *tra* persone di età diverse.

Negli spazi sicuri è fondamentale lavorare sulla comunicazione e condividere valori comuni cosicché la lotta sia efficace, e anche perché il benessere e la crescita personale e politica di ciascun individuo è strettamente legata a quella della comunità di riferimento e del gruppo di lavoro.
Solo una volta che avremo capito l’importanza di coltivare e proteggere le nostre vite, identità e posizionamenti politici, comportandoci da compagn*, potremo più coerentemente e autenticamente unirci alla resistenza animale e a ogni lotta che concerne la liberazione dell’animale umano.

Mai più complici, ma degn* alleat*

Come, infine, proteggere l’attivismo, il conseguimento degli obiettivi specifici e di eradicazione delle dinamiche di potere, nonché gli/le/* attivist* stess*?

Vorremmo affermare sentitamente che non è sufficiente dirsi simpatizzante delle parti lese da una o dall’altra oppressione. Non è abbastanza non insultare le persone immigrate per strada, bisogna anche difenderle da chi le insulta e opporsi alle politiche razziste, usare il nostro privilegio per dare risalto alle parole degli/lle/* attivist* che subiscono discriminazione e cedere i nostri spazi a chi ne ha meno di noi; è fondamentale impegnarsi a diventare degn* alleat* nella lotta.

Nel non prendere posizione netta e concisa tra l’oppressore e la lotta contro l’oppressione, si pecca di negligenza; non è minimamente sufficiente non essere parte dell’oppressione, e questo lo sappiamo quando noi attivist* ci schieriamo attivamente dalla parte degli animali senza limitarci a non mangiarli o a non consumarne i beni.
Non essere complici non consiste solo nel non perpetrare una violenza, ma anche nell’opporsi strenuamente contro di essa. Non riconoscere una silenziosa connivenza nell’immobilità e nella mancata presa di posizione personale e politica è semplicistico e fuorviante.

Ecco perché è importante schierarsi e non rimanere mut* rispetto a quello che subiscono gli/le altr*, chiunque siano, ed è importante boicottare tutte quelle realtà che fanno il contrario.

Citiamo un’organizzazione visibile e anti-intersezionalità: Anonymous for the Voiceless (AV), per esempio, che è una di queste.
AV ha infatti rifiutato, per esempio, di cacciare George Martin (un noto organizzatore regionale in AV) fuori dall’organizzazione, elemento conosciuto per la sua misoginia e la sua xenofobia (tutto riportato in una videocall avvenuta tra lui e Paul Bashir, uno dei co-founder).
Sia tra i volontari sia tra i veritici dell’organizzione ci sono persone razziste, islamofobe, transfobiche e maschiliste, e avrete sicuramente letto che i “portavoce” dicono di rifiutare l’intersezionalismo. Queste affermazioni e le “non prese di posizione” non possono che spianare la strada a esclusivismo e discriminazioni all’interno del movimento, esperienza che ogni attivista che abbia militato in qualsivoglia movimento con posizioni simili ha sicuramente registrato in modo diretto o indiretto (ricordiamo che spesso il riconoscimento e la denuncia pubblica sono strade molto difficili per chi subisce discriminazioni, molestie o sottili esclusioni e svalutazioni).

Facciamo un esempio realmente accaduto che porterebbe a un risultato paradossale applicando le attuali policy inclusive di AV.
In un capitolo italiano un ragazzo ha fatto post palesemente razzisti contro i cinesi. Una ragazza nel suo stesso gruppo, notando le cose che lui scriveva sul suo profilo personale, ha lasciato il gruppo. Se l’organizzatrice del capitolo avesse allontanato il ragazzo, e lui avesse fatto ricorso ad AV, il team HR avrebbe investigato la questione, scoprendo che non era avvenuto nessun caso di abuso interno al gruppo, perché i post razzisti erano sul profilo personale dell’accusato. Questo significa che a essere in torto sarebbe stata l’organizzatrice del capitolo in questione, che avrebbe così rischiato di essere allontanata per aver cercato di creare uno spazio sicuro rimuovendo dal gruppo una persona apertamente razzista.
Dato che il personale è politico, il comportamento privato dell’attivista accusato non può essere slegato dalla sua attività politica.

Qualsiasi pensiero o comportamento discriminatorio non può essere etichettato come “opinione legittima”, nessuna esternazione d’odio verso qualcun* o una categoria discriminata può essere considerata legittima.

Con questo articolo speriamo di aver fatto luce su alcuni dei problemi di approccio e di lavoro dei movimenti antispecisti odierni e di aver offerto una chiara visione dei benefici e della correttezza dell’approccio intersezionale.

Articolo a cura di:
Sveva Basirah Balzini, Giulia Di Loreto, Ernest Everhard, Angelo Amore, Albo Specchietto, Gabriele De Francisco, Alexandra Curigan, Iari Motta

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