Allah, Tesori Nascosti e il Divino Femminino – The Immanent Frame – SLUM

Questo articolo di Sa’diyya Shayk è stato originariamente pubblicato su The Immanent Frame (qui) e tradotto da Margherita D’Arnaldo.


Nel corso della sua storia, la teologia musulmana è stata radicalmente iconoclasta – per la maggioranza dei musulmani Dio non è solo al di là del genere, ma anche al di là di ogni similitudine antropocentrica. In parole povere, l’idea di Dio Padre non fa parte dell’immaginario musulmano dominante. La teologia musulmana parla piuttosto di innumerevoli attributi divini, in sé privi di genere, come di un mezzo per l’umanità di riferirsi all’Unico Dio che tutto comprende. I Nomi di Dio – o Suoi attributi – rivestono un’importanza centrale nella teologia musulmana: l’umanità e l’intera creazione trovano in essi la propria origine ontologica, e sono considerati una manifestazione delle loro diverse combinazioni. Qualora si voglia affrontare il tema del genere da un punto di vista teologico diventa quindi importante osservare come sono rappresentati gli attributi divini.

Nonostante il rifiuto teologico di qualsiasi antroporfismo sessuato, l’arabo – la lingua del Corano e della prima teologia musulmana – è tuttavia una lingua fortemente marcata in base al genere. Allah, il termine arabo per indicare Dio, è reso per convenzione con il pronome maschile huwa (Lui); qualcosa che tuttavia, secondo la teologia musulmana, non dovrebbe essere confuso con l’attribuzione a Dio di una mascolinità umana – o almeno così si presume. Nel tentativo di risolvere la tensione fra l’uso di un pronome maschile arabo che si riferisce a Dio come a ‘Lui’ e l’affermazione teologica secondo cui Dio è al di là del genere, ho deciso qualche anno fa di riferirmi a Dio nelle mie presentazioni usando sia ‘Lui’ che ‘Lei’ –per evitare così di promuovere un legame sottinteso o inconscio fra Dio e la mascolinità.

L’uso di questi pronomi inclusivi per definire Dio ha suscitato reazioni miste nei diversificati uditori musulmani cui l’ho proposto: alcuni fra i più giovani hanno trovato convincente ed emozionante l’uso di pronomi inclusivi per riferirsi a Dio, mentre le persone più mature hanno spesso espresso profondo disagio nel sentir associare a Dio un linguaggio femminile. A mio parere questo disagio può in parte essere spiegato dal fatto che il patriarcato ha reso normativa un’immagine maschile del divino (anche solo da un punto di vista simbolico e linguistico) rendendone al tempo stesso impensabile, o quantomeno dissonante, un’immagine femminile. I musulmani e le musulmane, così come fra i loro fratelli e sorelle delle religioni abramitiche, hanno una lunga storia di patriarcato; e anche se possono non aver elaborato immagini di Dio come padre, i musulmani hanno senza dubbio storicamente naturalizzato l’androcentrismo, l’autorità maschile, le gerarchie di genere, oltre che le implicite associazioni del maschile con il divino. Tutto questo ha portato gravi danni alla piena umanità delle donne come degli uomini. In fin dei conti, le concezioni relative alla natura di Dio sono intrinsecamente legate alle nostre concezioni della natura e delle relazioni umane.

Nell’ampio spettro della storia del pensiero musulmano, ho trovato una profonda assonanza con l’audace contributo apportato dallo studioso Muhyi al-Din Ibn Arabi (1165-1240). Nel riportare alla luce le rappresentazioni che questo brillante studioso ha fatto del genere e del divino, ho scoperto una poetica peculiare e potente della creazione, dell’accudimento, del potere e della spiritualità, una poetica che mette in connessione la Terra, la maternità, la femminilità, le donne e il Divino Femminino. Nelle parole di Ibn Arabi:

La Terra trae i benefici che dona dalla sua essenza (dhat) ed è in essa che si trova ogni Bene. È dunque Lei ad avere il corpo più Potente (a’azz) Lei è la Paziente (sabur), la Ricettiva (qabila), l’Immutabile, la Solida (…) ogniqualvolta si allontana dal timore reverenziale di Dio, Dio la rende stabile, le sue montagne come àncore. E Lei si pacifica, della tranquillità di cui gode chi ha la certezza della fede. È dalla Terra che le persone di fede apprendono la propria fermezza. È quindi Lei la madre da cui proveniamo e a cui ritorniamo. È da lei che Risorgeremo ancora. Siamo sottomessi e affidati a Lei. Lei è la più sottile di tutti i pilastri (arkan) del senso. Lei accetta la densità, l’oscurità e la durezza solo per tenere nascosti i tesori che Dio Le ha affidato.

In questa serie di immagini evocative, Ibn Arabi rappresenta la Terra come una fonte di pienezza e abbondanza, intimamente legata al divino. La Terra incarna gli attributi divini di potenza, stabilità, forza, ricettività e sottigliezza – e rappresenta un modello spirituale fondamentale per quanti e quante cerchino di nutrire la propria fede, il proprio senso di tranquillità e di certezza. La Terra infatti riflette un ampio spettro di qualità divine, che costituiscono a loro volta una fonte di conoscenza e di sapere per chi, attraverso la percezione, cerchi di perseguire un percorso di crescita spirituale.

Più nello specifico, la descrizione che Ibn Arabi fa della Terra evoca uno spettro intricato di qualità divine che riecheggia in modo chiaro la descrizione che il Corano fa di Dio. Nel chiamare la Terra al-Sabur, la Paziente – un nome che ricorre frequentemente nel Corano per indicare Dio – Ibn Arabi crea nel lettore musulmano un’esplicita assonanza fra la Terra e Dio. In modo simile, rappresentare la terra come colei che ‘nasconde tesori’ riecheggia la ben nota tradizione (hadith al-qudsi) in cui Dio dichiara “Ero un tesoro nascosto e amai essere conosciuto; così creai la creazione per essere conosciuto”. La descrizione della Terra come “la madre da cui veniamo e a cui ritorniamo” è un’esplicita rievocazione del celebre versetto coranico “In verità noi siamo di Dio e a Lui ritorniamo” (2:156)

In tutte queste descrizioni, Ibn Arabi mette esplicitamente in relazione, senza alcuna ambiguità, la Terra con il divino, celebrandola come la fonte creativa, benevolente e materna di ogni bene. Nel riflettere sulla relazione – intima e spirituale così come immanente e fisica – che esiste fra l’essere umano e la Terra, Ibn Arabi porta alla luce il tema della capacità procreativa delle donne e del Femminino Divino. Inoltre, nel mettere in relazione le qualità materne, terrestri, e generative del divino con gli attributi maestosi di forza, potere e immutabilità, Ibn Arabi spinge i suoi lettori a integrare e creare un equilibro fra quelli che, in base alla tradizione, possono essere categorizzati come gli attributi ‘maschili’ e ‘femminili’ del divino. La sua è una poetica dove la presenza divina si riflette su una Terra che offre guida spirituale, è il luogo da cui l’essere umano origina e a cui ritorna; una poetica che permette di rivalutare la carnalità, la materialità, il materno e la spiritualità.

A una lettura femminista appare degno di nota come queste immagini presentino una sostanziale integrità fra il terrestre e il divino, fra la carnalità e lo spirito- elementi che il patriarcato tradizionale ha preso in considerazione separatamente, strutturandoli in gerarchie basate sul genere. Il ritratto glorioso che Ibn Arabi fa della Terra – e del suo corrispondente più intimo, il corpo umano – mostra un chiaro rifiuto del binarismo patriarcale tradizionale. Questi binarismi dualistici hanno spesso svalutato la Terra in quanto regno inferiore della carne e della materia (elementi spesso disprezzati e connessi al femminile e alle donne), descrivendola come una trappola necessaria all’esistenza ma su cui l’essere umano deve cercare di prevalere. In Ibn Arabi invece il corpo e la Terra, come realtà materne e generative, sono permeati di valore spirituale, e possono riconfigurare le idee dominanti sul genere.

In altri passaggi della sua opera Ibn Arabi utilizza inoltre le metafore della gravidanza, del travaglio e del parto per descrivere l’origine della creazione. Secondo questo mito cosmogonico, prima della creazione Dio si trovava in uno stato di Unità solitaria, in cui le ancora non-esistenti entità compresenti all’Uno erano gravide di potenzialità, ed esercitavano una pressione metafisica su di esso. Ibn Arabi descrive con il termine arabo karb questo stato di turbamento indotto nell’Uno dalle ancora non-esistenti entità compresenti in esso: una parola che indica la fase di travaglio prima del parto. In risposta a questo stato di contrazione, la forza creatrice del divino – descritta come il Soffio del Clemente (Nafas al-Rahman) –libera le entità non-esistenti nella sfera dell’esistenza, in un atto di amorevole compassione. Come le donne danno alla luce i propri figli, Dio partorisce il cosmo e rivela così i Suoi (di Lei) tesori divini.

Al tempo stesso, grazie al suo tipico uso fluido delle metafore di genere, Ibn Arabi descrive Dio come ‘maschio’, affermando che tutta la creazione è ontologicamente ‘femmina’ in relazione a Dio, che impregna di esistenza ogni essere. In modo molto audace, egli afferma che ‘non esiste alcun maschio in questo universo oltre a Dio’, e che quanti sono generalmente considerati maschi sono in realtà tutti femmine, ricettive all’Essere del divino Creatore. L’uso flessibile e relazionale che Ibn Arabi fa delle metafore materne e paterne spinge il suo lettore verso una concezione del genere più agile e fluida, in riferimento al divino così come all’umano.

Nelle metafore di Ibn Arabi, vibranti e corporee, incontriamo un Dio che ama e brama di essere conosciuto, che prova un sentimento di angoscia prima della creazione, e il cui processo creativo è reso attraverso le immagini della gravidanza, del travaglio, e della maternità. Queste metafore evocano un aspetto vitale della connessione profonda, del’interiorità e della cura che esistono nella relazione fra Dio e l’umanità. Inoltre, un Dio che ha bisogno dell’umanità per la realizzazione, la manifestazione, e il compimento delle proprie possibilità, sovverte le teologie patriarcali gerarchiche che definiscono Dio prima di tutto come onnipotente, trascendente, e indipendente dall’umanità. Questo non è il tipico Dio invincibile il cui Potere assoluto richiede obbedienza incondizionata, ma piuttosto un Dio che dà impeto alla creazione in base all’amore e al desiderio. Mettendo a soqquadro le gerarchie di genere dominanti, Ibn Arabi ci presenta una relazione fra Dio e l’umanità fondata sull’intimità, la vicinanza, l’amore, e la reciprocità; caratteristiche che concorrono tutte a dare linfa a una teologia che costituisce la base ontologica su cui coltivare e sviluppare un’etica musulmana femminista, fondata sulla relazionalità e sull’interdipendenza radicale.

Abbiamo bisogno di un linguaggio teologico più inclusivo in termini di genere per affrontare le sfide etiche, religiose, e spirituali del nostro tempo: un linguaggio che non solo riaffermi la soggettività delle donne ma possa anche destabilizzare un’economia simbolica maschilista. È imperativo per i credenti e le credenti che sono in cerca per il proprio di tempo di espressioni più ampie di bellezza, giustizia e virtù, riscoprire le risorse lasciate ai margini del proprio archivio religioso – perché ispirino nell’immaginario musulmano la creazione di visioni sempre più inclusive di Dio, dell’umanità e del Creato.

Sa’diyya Shaikh è professoressa associata di studi religiosi all’Università di Città del Capo. La sua ricerca si colloca all’intersezione tra studi islamici e studi di genere, con un interesse particolare per il sufismo. Il brano qui tradotto prende spunto dal suo libro “Sufi Narratives of Intimacy: Ibn ʿArabī, Gender and Sexuality”, pubblicato da University of North Carolina Press nel 2012.

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