L’articolo originale è stato scritto da Sidrah Ahmad-Chan e pubblicato su This nel febbraio 2020 (lo trovate qui). La traduzione e le revisioni sono state fatte da Davide Motta, Giulia Davoli e Maria Alessia Nanna.
Le donne musulmane non dovrebbero essere obbligate a sembrare superumane per evitare di essere viste come deboli
Sono stanca della narrativa sulla “Empowered Muslim Woman ™”. La trovo estenuante.
Come donna chiaramente musulmana (che porta il velo, che è praticante ndr), gran parte della mia vita
quotidiana comprende la partecipazione a uno strano tipo di gestione della mia immagine. Sono
consapevole degli stereotipi nell’aria quando entro in una stanza, quindi faccio in modo di abbatterli.
L’abbattimento degli stereotipi è una costante delle mie giornate che è ormai parte integrante del mio
modo di pensare. È quasi come se lavorassi come agente di pubbliche relazioni non retribuito per la mia
comunità mentre interagisco con il “mondo esterno”. Attraverso il mio lavoro, attivismo e personalità,
dimostro che le donne musulmane non sono oppresse, e che in effetti siamo empowered.
Questo lavoro è infinito, ma non è per questo che mi sfinisce. Ciò che prosciuga le mie energie fino alla
disperazione è la sensazione di essere intrappolata in una conversazione in bianco e nero che non sembra
reale. La dicotomia “Le donne musulmane sono forti e empowered” rispetto a “Le donne musulmane sono
deboli e oppresse” non riflette la sfumatura o la complessità della vita delle donne reali. Certo che no.
Eppure, queste due narrazioni contrapposte sulle donne musulmane vengono ripetute ciclicamente in un
flusso infinito di slogan semplicistici. Anch’io ho utilizzato questo tipo di slogan in risposta a stereotipi
dannosi e alla retorica di estrema destra che mi sono trovata davanti, come se stessi leggendo una scaletta
fornita da un team di marketing anti-islamofobia progettato per migliorare il brand delle “Muslim Women
and Girls ™”.
E sono stanca di tutto questo.
Il mio lavoro di “PR musulmana che abbatte gli stereotipi” è iniziato nel 1995. Il mio primo giorno di
seconda media è stata anche la prima volta che ho indossato l’hijab a scuola, e all’epoca ero l’unica bambina della mia scuola media di Toronto che lo faceva. Quando sono entrata in classe con la testa coperta quel giorno, il mio insegnante mi ha chiesto di alzarmi e spiegare il mio hijab al resto della classe.
Ricordo di aver sudato mentre descrivevo il significato di hijab ai miei compagni di classe al meglio delle mie capacità di dodicenne cercando di assicurarmi che tutti capissero che indossare l’hijab era la mia scelta, che ero empowered. A quell’età, conoscevo già fin troppo bene gli stereotipi che circolavano sui musulmani: che siamo terroristi, che siamo arretrati e, lo stereotipo di genere più rilevante per me, che le donne e le ragazze musulmane erano oppresse, indifese, vittime.
Il mio compito era combattere quelle idee e così ho fatto, per molti anni.
Durante le scuole medie e superiori, smentire gli stereotipi islamofobici di genere è stato facile per me,
perché i miei interessi e le mie passioni naturali andavano contro le aspettative dominanti per le donne e le ragazze musulmane. Ero chiacchierona e confusionaria durante le lezioni, condividendo molte opinioni sui libri che ci erano stati assegnati e partecipando a dibattiti infuocati sugli eventi attuali. Ho giocato a basket e a calcio con i ragazzi a pranzo e dopo la scuola e mi sono unita alla squadra di rugby delle ragazze, divertendomi a rotolare per terra e combattendo duramente per segnare una meta nei tornei. Eppure,
sebbene abbia presentato un’immagine assertiva e atletica, c’erano comunque aree della mia vita in cui non mi sentivo forte; in cui mi sentivo spaventata, vulnerabile e, oserei dire, per niente empowered. Ma non potevo condividere quei sentimenti, non c’era spazio per loro. Vennero messi da parte per mantenere l’immagine forte che mi sentivo in dovere di sostenere. Il compito di frantumare gli stereotipi islamofobici mi sembrava più urgente, così gli ho dato la priorità.
Non ero la sola ad averlo scelto come priorità. Le comunità musulmane in Canada e in Occidente in
generale hanno investito molto nella sfida allo stereotipo della “donna musulmana oppressa”, una figura
che solletica l’immaginazione coloniale e alimenta un danno incommensurabile contro le comunità
musulmane. Infatti, la singola storia stereotipata sulle donne musulmane non è solo un danno personale; è
utilizzata contro le comunità musulmane in tutto il mondo. L’immagine della “donna musulmana oppressa” è stata usata per giustificare la colonizzazione dei paesi a maggioranza musulmana e persino per giustificare le guerre imperialiste. Ad esempio, l’invasione dell’Afghanistan guidata dagli Stati Uniti nel 2001 era in gran parte giustificata ai cittadini con l’idea di liberare le donne musulmane che vivevano lì. Tuttavia, più di 38.000 civili sono stati uccisi in Afghanistan dall’invasione del 2001, comprese le stesse donne musulmane che l’invasione prometteva di salvare.
Oltre a questi effetti globali, lo stereotipo della “donna musulmana oppressa” alimenta anche la violenza
contro le donne musulmane che vivono qui in Canada. Nel 2016 ho condotto uno studio con donne
musulmane sopravvissute alla violenza islamofobica per la tesi magistrale. In questo studio, ho parlato con 21 donne musulmane nella Greater Toronto Area. Collettivamente, queste donne mi hanno raccontato di oltre 30 episodi di violenza nei quali sono state prese di mira a causa della loro identità musulmana. Questi episodi includevano tentato omicidio, aggressione fisica, violenza sessuale e molestie verbali. In diverse mi
hanno detto che credevano di essere state prese di mira per questa violenza motivata dall’odio a causa
dello stereotipo che le donne musulmane sono passive, modeste e oppresse. Come ha affermato una
donna che ho intervistato, “l’idea che le donne musulmane siano deboli, non possano parlare, siano
sottomesse, spaventate, oppresse e in qualche modo dobbiamo essere liberate, ci rende facili bersagli.”
Molti altri partecipanti hanno dato risposte simili: credevano che i loro aggressori fossero motivati dalla
convinzione che le donne musulmane fossero oppresse; nella loro mente, dal momento che le donne musulmane erano già “beni danneggiati”, non è sbagliato perpetrare violenza contro di loro.
Alla luce del ruolo centrale dello stereotipo della donna musulmana oppressa nell’islamofobia, e del modo
in cui questo stereotipo alimenta la violenza contro le persone musulmane, ha senso che io e tante altre ci assumiamo il compito di smentire questa narrativa dannosa. I media progressisti che cercando di sostenere questa causa a volte cercano di riabilitare l’immagine delle donne musulmane mostrano storie di successo di atlete, politiche, ingegneri, scienziate, attiviste e soldatesse musulmane; questi articoli sono quindi condivisi da persone ben intenzionate nella speranza di contraddire quella che a volte sembra una narrativa fissa e immutabile sull’impotenza delle donne musulmane.
Vedete? Dichiariamo collettivamente attraverso queste storie che distruggono gli stereotipi. Le donne
musulmane non sono oppresse. Sono empowered!
Non fraintendetemi: questo tipo di storie è vitale, e distruggere gli stereotipi è un lavoro importante.
Dopotutto viviamo in un periodo di crescente e dilagante islamofobia in Canada e in tutto il mondo. È stato
preoccupante assistere a come la diffusione dell’ideologia del suprematismo bianco e in politica la
riduzione a capro espiatorio delle persone musulmane e dei rifugiati abbiano aperto la strada a una nuova
identità nazionalista bianca di estrema destra in Canada. Senza dubbio l’estrema destra usa le
argomentazioni sull’oppressione delle donne musulmane per sostenere che ci sia posto in Occidente per i
musulmani, e per spingere alla chiusura dei confini a rifugiati e immigrati. Contemporaneamente alla
diffusione di questa retorica antimusulmana, c’è stata una crescita drammatica nei crimini d’odio contro i musulmani, tra cui il massacro al Centro Culturale Islamico di Quebec City il 29 gennaio 2017, che ha
causato la morte di sei uomini musulmani e il ferimento di altri 19. Abbiamo anche assistito all’approvazione del Decreto 21 in Quebec, che prende di mira le donne musulmane (e altre minoranze
religiose) vietando di indossare simboli religiosi a chi voglia essere assunto come insegnante o in qualunque altro lavoro di servizio pubblico.
In questo ambiente sociale e politico ostile, è vitale demolire lo stereotipo della donna musulmana oppressa. Ma così facendo, rischiamo di eliminare e respingere le istanze delle donne e ragazze musulmane
che appaiono non adatte a questo obiettivo: quelle che non infrangono barriere e le cui vite non offrono
una replica incisiva alla retorica di estrema destra. In più, fissandoci sull’infrangere gli stereotipi, rischiamo di rimanere bloccati in una modalità difensiva, aggrappandoci agli slogan anziché rispondere alle sfumature e alle complessità. Rischiamo di diventare rappresentanti di pubbliche relazioni quando ciò che ci serve sono un dibattito basato sulla riflessione e la verità.
La verità è che le donne musulmane in Canada non sono intrinsecamente oppresse né empowered,
qualunque cosa si intenda con questi termini. Come per chiunque altro, la vita delle donne musulmane è
piena di cose buone e cattive, e di incasinate contraddizione. Alcune di noi sono sopravvissute a crimini
dell’odio islamofobici, altre ad abusi subiti nelle loro famiglie e nella loro comunità. Alcune si innamorano
dell’hijab e lo indossano per scelta, altre subiscono pressioni o sono costrette a indossarlo. Alcune
diventano medici o leader politici e sono celebrate dalle loro comunità, altre lottano contro le dipendenze e
hanno bisogno di sostegno. Conosco personalmente donne musulmane che hanno affrontato tutte queste
cose in momenti diversi della loro vita. Proprio come per qualsiasi altro essere umano reale e tridimensionale, le nostre vite non sono caricature che possono essere incasellate, né negli stereotipi dell’estrema destra né nell’idea progressista di rompere gli stereotipi. Eppure mentre le donne musulmane vivono le loro vite, reali e sfaccettate, molte avvertono comunque la pressione a raccontare una storia singola e super-empowered di se stesse, per mantenere le apparenze e combattere l’islamofobia.
Forse la tensione più significativa si verifica in situazione di violenza di genere. La violenza di genere avviene
in tutte le comunità, e quelle musulmane non fanno eccezione: non siamo più inclini alla violenza di altre
comunità, né siamo immuni ad essa. Eppure, quando sopravvissute musulmane si fanno avanti, e se anche chi ha commesso l’abuso è musulmano, l’intera comunità è stigmatizzata come barbarica e le storie delle sopravvissute rischiano di essere strumentalizzate per alimentare agende politiche razziste. Alle donne musulmane che sfuggono agli abusi non è riconosciuto il diritto ad essere viste come individui vittime di uomini violenti; la storia del loro abuso è invece ridotta ad una questione di etnia e generalizzata per
accusare un’intera comunità. Visto? Sono tutti così.
In questo senso l’islamofobia rende più difficile per le donne musulmane parlare degli abusi. A causa di
queste dinamiche, molte donne musulmane che subiscono abusi scelgono di rimanere in silenzio. Quelle che si fanno avanti devono camminare sul filo del rasoio: da un lato rischiano che la loro storia venga usata per demonizzare l’intera comunità e implementare politiche islamofobiche e violenza contro le persone musulmane; dall’altro lato la reazione negativa da parte delle persone che hanno commesso l’abuso e di chi le difende, che potrebbero accusare le donne di accrescere lo stigma contro la comunità facendosi avanti con la loro verità.
Le donne musulmane sopravvissute alla violenza di genere non sono le uniche persone che si sentono
messe a tacere dalla discriminazione sistemica. Lo scorso gennaio, jaye simpson, una persona trans non
binaria Due Spiriti (termine dei nativi americani per indicare le persone trans o non binarie, ndr) delle tribù
Oji- Cree e Saulteaux (due nazioni native americane, ndr), ha scritto nella rivista GUTS che non avrebbe mai fatto i nomi di persone che commettono violenza nelle comunità indigene perché “non ha intenzione di fornire ai non-indigeni la lama con cui ferirci”. Allo stesso modo Lindsay Nixon, autor* delle tribù Cree,
Métis e Saulteaux, ha scritto nel numero di dicembre 2018 di Walrus di aver “mantenuto segreti per uomini indigeni per anni, per paura delle ripercussioni che potrebbero risultare se avessi raccontato la verità”. Per Nixon, queste potenziali ripercussioni include quella che i coloni e le autorità canadesi dipingano l’interacomunità come “Indiani corrotti con comunità problematiche che non possono, e non meritano di gestire le nostre risorse.” Sono grossi rischi, che causano un’enorme pressione sulle persone sopravvissute alla violenza perché mantengano il segreto. Gli articoli di Nixon e simpson dimostrano la necessità di un
dibattito in Canada su come colonialismo e razzismo contribuiscano a mettere a tacere le persone indigene sopravvissute agli abusi.
Anche sopravvissut* che vengono da comunità musulmane stanno prendendo parola e scrivendo
dell’impossibile dilemma in cui l* intrappolano razzismo sistemico e discriminazione. Nel febbraio 2018
Nour Naas, una donna musulmana statunitense il cui padre uccise sua madre dopo anni di violenza domestica, ha scritto un pezzo personale per The Establishment nel febbraio 2018, in cui racconta come
“l’islamofobia ha contribuito al silenzio di mia madre e al mio.” Nel pezzo mette in diretto collegamento
l’islamofobia come barriera per le donne musulmane che vogliano prendere parola contro gli abusi che
subiscono. “Se vogliamo che le donne musulmane si aprano sugli abusi” scrive Naas “la cultura ostile
dell’islamofobia deve smettere di esistere.”
Grazie alle voci di Naas e altre, credo che il vento stia cambiando all’interno delle comunità musulmane in Nord America. Lo scorso agosto, in un caso che farà giurisprudenza negli Stati Uniti, all’Imam Zia ul-Haque Sheikh del Centro Islamico di Irving è stato ordinato di pagare 2,5 milioni di dollari a una donna che ha
scelto di rimanere anonima, che l’imam aveva plagiato attraverso il suo ruolo di consigliere spirituale fin da quando lei anni 13 anni, e costretto ad avere rapporti sessuali dopo il compimento dei 18 anni. Facing
Abuse in Community Environments, un’organizzazione senza scopo di lucro guidata da donne musulmane,
che ha l’obiettivo di portare di fronte alla giustizia leader religiosi musulmani che commettono abusi, ha
scoperto che prima di questi episodi Zia ul-Haque Sheikh era stato licenziato da altre moschee a causa di
comportamenti inappropriati nei confronti delle fedeli. La lotta di questa anonima ha dimostrato che anche i membri influenti della comunità possono essere portati di fronte alla giustizia, e che la religione non deve essere uno scudo per chi commette abusi.
Alla luce della storia di questa donna anonima e di quella di Nour Naas, spero che emerga un nuovo modo
di raccontare l’empowerment per le donne musulmane: uno che non richieda nascondere o negare gli
abusi che avvengono nelle famiglie e comunità musulmane per distruggere gli stereotipi e combattere la
propaganda dell’estrema destra. Spero che le persone che hanno ruoli di guida e influenza nelle comunità
musulmane in Canada e negli Stati Uniti realizzino che possiamo chiedere giustizia per gli abusi nella nostra comunità e al tempo stesso combattere l’islamofobia sistemica. Non abbiamo bisogno di rispondere agli slogan dell’estrema destra con altri slogan iper-semplicistici. Anzi, ponendo sulle donne e le ragazze
musulmane l’onere di smentire gli stereotipi sostenendo di essere empowered™ ha delle conseguenze. È
un modo sottile di dire alle ragazze e donne musulmane che convivono con abusi o oppressione che le loro
storie non saranno ben accolte.
Spero che un giorno le ragazze e le donne musulmane che convivono con l’abuso possano farsi avanti senza
timore che la loro storia sarà strumentalizzata, senza doversi chiedere quale impatto avrà sulla loro
comunità sempre nel mirino. Spero che la nostra società in generale possa cominciare a vedere attraverso
le tattiche dell’estrema destra e il modo in cui strumentalizza le storie di abusi delle donne musulmane per
alimentare agende politiche razziste e xenofobiche.
Soprattutto, spero che arrivi il giorno in cui le ragazze e le donne musulmane non debbano affatto
dimostrare di essere empowered™, in cui possiamo tutte dimetterci dall’incarico di rappresentanti delle
pubbliche relazioni, e semplicemente vivere le nostre vite ordinarie, con tutte le contraddizioni incasinate,
e decidere cosa fare per conto nostro.
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