Mondo, sono una donna con barba e baffi! – HuffPost – SLUM

Questo articolo è stato scritto da Mala Badi, attivista trans in Marocco, per Huffington Post nel 2016 (lo trovate qui). Immagine di Julian Love via Getty Images.


Decisi di dire alla mia famiglia durante il pasto che rompe il digiuno del Ramadan quel che nascondevo da 20 anni, che quel loro figlio Hamza in verità fosse una figlia e di nome Mala. Pensavo che mi avrebbero dato la possibilità di spiegare, ma il pasto gioioso sembrò diventare una cupa cerimonia funebre. Il terribile silenzio si interruppe quando mio padre prese una tazza di caffè bollente e me la gettò addosso.

Mio fratello cominciò a colpirmi e mi ruppe i denti, poi saltò sul tavolo per tempestarmi di cazzotti. Mia madre iniziò a urlare, ma sembrava che sapesse già che fossi davvero sua figlia, e cercò di fermarli. Eppure da allora non le ho più tenuto le mani. Mio padre mi cacciò di casa, dicendo che non c’era posto nella sua famiglia per i finocchi.

Ho fatto molta strada da quel momento, ma arrivare fino a qua è stata una lotta nell’ambiente socialmente conservatore del Marocco, dove vivo.

A 15 anni trovai per la prima volta un gruppo di amici gay e transgender, mi sentii pervasa da un profondo sentimento di gioia e riuscii finalmente ad accettarmi per quello che ero.  Lì in una casa privata, lontano dai miei compagni di classe e persino da Dio, non pensavo più di essere l’unico “deviato” al mondo. Potevo indossare abiti da donna e ballare come Ruby, la seducente cantante egiziana.

Era il primo posto dove mettevo il rossetto da quando ero una bambina, quando frugavo segretamente nella scatola dei trucchi di mia madre e gli abiti che teneva per le occasioni speciali. Indossavo l’abito che indossava ai matrimoni e un po’ di rossetto rosso, poi camminavo per la casa come una principessa per qualche minuto prima di togliermi i vestiti e strofinarmi le labbra con l’acqua, sapendo che sarebbe tornata presto a casa.

Con i miei nuovi amici, quando la festa finiva, alteravamo le nostre apparenze per sembrare mascolin* e andare via, ma non mi andava mai via la voglia di ballare per le strade di Casablanca. Una volta, inziai a ondeggiare impettita come una modella, approfittando di un vicolo vuoto nell’affascinante quartiere di Maarif, quando improvvisamente apparve una banda di ragazzi. La mia compagna Ayoub, o Carol come voleva che la chiamassi, disse: “Dai ragazza! Ci sono dei rouair in arrivo. Ti pesteranno se non ti sbrighi a comportarti come un ragazzo”.

Non conoscendo certe parole, le chiesi di insegnarmi di più per poter trovare la mia strada in quel nuovo mondo. Mi disse: “devi imparare la lingua dei louaba (le persone queer) in modo da poter evitare guai e che ti menino. Sono preoccupata per quello che i rouair (omofobi) potrebbero farti perché non hanno alcuna pietà.”

Mi presentò Zbiba, che mi insegnò le parole segrete di cui avevamo bisogno per tenermi al sicuro e cavarmela. Mi insegnò anche come proteggermi dal rouair, come mettere un preservativo e come scappare di casa se il mio segreto fosse stato scoperto. Mi insegnò come cercare dei partner sessuali e come gestire la mia doppia vita.

Diventai più cauta, indossavo la maschera da ragazzo appena sveglia, a scuola, nel mio quartiere e a casa. Ma di notte, durante le ore in cui le uniche persone nei parchi di Casablanca erano quelle che cercavano giovani ragazzi, ridiventavo queer. I parchi erano degli angoli nascosti in cui si svolgevano incontri sessuali e sviluppavamo relazioni.

Ho iniziato a sentirmi come se avessi una responsabilità o appartenessi a un qualche rango militare appuntato su un braccio, dato che da allora il mondo dei louaba non mi sembrava più nuovo. Ci era stato tramandato dal 1956, quando i coloni francesi se ne andarono – un nuovo stile di vita queer pieno di avventure, oppressione e nascondersi dietro una maschera.

La nostra vita di omosessuali e trans ruotava attorno a pochi minuti di sesso tra le querce che fiancheggiano le autostrade delle nostre città, nelle case abbandonate o nelle stanze sul tetto dei nostri partner, e ci assicuravamo sempre di toglierci le scarpe prima di salire le scale perché nessuno scoprisse cosa stavamo facendo.

“L’omosessualità è una preferenza romantica e sessuale per le persone dello stesso genere”, lessi su Wikipedia. Da questo punto di partenza cominciai a leggere riviste gay e acquisire familiarità con Kif-Kif e Helem, i movimenti marocchini e libanesi per i diritti degli omosessuali, nonché col significato del Pride.

Era tutto molto diverso da ciò che Zbiba mi aveva insegnato, cioè che l’unico modo per sopravvivere come queer fosse vivere una doppia vita. Invece, iniziai a comprendere i diritti LGBT e la necessità di fare attivismo per difendere apertamente quei diritti. Questa fu una grande trasformazione nella mia vita e presi a trasmettere queste informazioni allə altrə louaba. Si riunivano eccitatə intorno a me mentre parlavo di amore, natura e diritti dei gay in Europa, usando il termine mithli (gay) piuttosto che shadh (deviato). Conclusi che non ero dello stesso stampo di Carol e Zbiba, quindi mi distaccai da loro e dall’universo dellə louaba.

Poi, la primavera araba arrivò alle nostre coste. Il 20 febbraio 2011 mi ritrovai per strada tra a migliaia di altr* giovan* marocchin*, cantando “libertà, giustizia, dignità, uguaglianza!” ad alta voce, per la prima volta.  Mi sentivo come se fossi nata di nuovo. Alle riunioni con altr* attivist* sentivo di essere tra persone che non avevo bisogno di temere, perché da quel giorno in poi avevamo urlato insieme “niente più paura!” di fronte agli edifici governativi, in una marcia fatta di migliaia di persone.

Quindi rivelai gradualmente il mio orientamento sessuale. Scrivevo nervosamente sui cartelli “No all’articolo 489” (la parte del codice penale che criminalizza i rapporti dello stesso sesso) e “Non criminalizzate l’amore”. A maggio, durante una manifestazione innalzai una bandiera arcobaleno che fece infuriare gli islamisti che erano lì. Mi alzai diritta, il mio corpo fremeva e dissi: “I diritti dei gay sono diritti umani, dobbiamo accettare il fatto che molte tra persone che oggi gridano ‘lunga vita alla gente!’ siano queer e parte di questa gente!”

In quel periodo, ero impegnatissima a pensare alla rivoluzione e alla liberazione. Notai che anche altri gay prendevano parte alle marce, alcuni dei quali avevo visto segretamente nei parchi, o con cui avevo persino dormito. Ero orgogliosa di loro, stavano combattendo per il cambiamento e incarnavano il “gay naturale” come lo immaginavo, con i loro corpi e il loro impegno per il cambiamento politico.

I libri sulla filosofia, l’economia e la politica divennero il mio pane quotidiano e li sgranavo come rosari. Mi immersi in Marx, Sartre, Simone De Beauvoir e Mahdi Amel e Mehdi Ben Barka, attivisti del Medio Oriente che furono uccisi per le loro convinzioni politiche. Cito da “La storia della follia” di Michel Foucault: “I lebbrosi, i queer e i ribelli sono stati gradualmente rimossi dalla società e relegati ai margini più lontani, e poi banditi, gettati via e spinti nel regno della follia”.

Ero davvero il “gay naturale” che immaginavo di essere o mi ero costruita un muro intorno a me? Era mio dovere compiacere i/le/l* mie* compagn* per convincerl* che avessi il diritto di vivere?

Conobbi il personaggio di Harvey Milk, il Fronte Omosessuale di Azione Rivoluzionaria – marxisti francesi che avevano lo slogan “noi siamo la piaga sociale, e ora siamo nelle strade!” -, gli attivist* di liberazione gay in Catalogna che avevano tenuto i primi incontri ai tempi di Franco a Tangeri, in Marocco. Erano persone che avevano dichiarato a gran voce il loro orgoglio.

Ecco quando decisi di dichiararmi alla mia famiglia. E lo feci, prima di trovarmi a dormire su dei pezzi di cartone umidi con solo il cielo come lenzuolo. Iniziavo le mie giornate cantando le canzoni dell’incantevole cantante Fairuz e leggendo un libro dell’attivista trans Sylvia Rivera, che avevo trovato per caso nell’immondizia. Rivera, nel suo discorso infuocato del Liberation Day del 1973 decantato a New York, sgridò la folla dicendo “I VOSTRI fratelli gay e le vostre sorelle gay sono IN PRIGIONE! Mi scrivono lettere ogni fottuta settimana e voi non fate un cazzo per loro!”. E continuò: “Sono stata picchiata, ho perso il mio lavoro, ho perso la mia casa per la liberazione gay: e voi mi trattate in questa maniera?”

Le sue parole mi dettero speranza e mi riportarono alla vita. Lei aveva perso tutto come me e girovagava per le strade di New York. L’unica differenza è che io girovagavo per le strade di Rabat. Lei mi ispirò e mi trasmise fiducia in me stessa. E pensai “io ti dico, mondo, sono una donna con barba e baffi!”.

Sei mesi fa mi sono messa il rossetto, mi sono tinta le unghie di nero e sono andata in mezzo alle strade affollate, senza fare mezzo sforzo per nascondere la vera me. Ma stavolta, anche se l’accettazione delle persone trans in Marocco non è per niente completa, non sono stata picchiata, nessuno mi ha spogliata o trascinata per terra. Che era cambiato dai tempi in cui studiavo attentamente i consigli di Zbiba? Non so. Probabilmente non la società, o non così tanto. Qualcosa in me era cambiato. Nella folla, una persona queer incrociò il mio sguardo e sibilò “jrahime!”. Mi girai verso di lei e le dissi “niente più jrahime da oggi, tesorino,” e le rammentai le femministe e lə queer che si erano fatte sbattere in galera per segnare per noi un percorso dalle tenebre di una cella alla splendende luce del sole della libertà di genere.

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