Lo abbiamo già detto: la morte di George Floyd non è l’unico casus belli. Il razzismo è una violenza sistemica, e si è portato via molte altre persone of color anche negli ultimi tempi. Tra cui, Breonna Taylor. Ringraziamo Elisa Sodano per questo pezzo del 31/05/2020.
Un breve (che poi mica è tanto breve) inciso prima di iniziare.
In questi giorni si parla moltissimo di George Floyd e della sua morte tragica e assurda, se questi aggettivi possono essere usati per descriverla, che è solo la punta di un iceberg fatta di discriminazioni quotidiane e istituzionalizzate che le comunità statunitensi di people of color denunciano da tempo.
L’idea di scrivere della storia di Breonna Taylor, però, è sorta in me da prima che a livello mediatico ci fosse così tanta attenzione su questa questione. Ci ho pensato una decina di giorni fa, quando ho trovato sui social un’immagine rappresentante il volto di Breonna, con l’hashtag #justiceforbreonna e mi sono domandata di cosa si trattasse, perché non avevo letto nulla a proposito. Ho fatto delle ricerche e sono rimasta allibita dalla notizia dell’ennesima violenza razzista da parte della polizia. E sono rimasta ulteriormente sconcertata dallo scoprire che cercando su google, la storia di Breonna non era riportata in italiano da nessuna parte, se non da un solo sito e non in maniera approfondita. Breonna è stata uccisa, in casa sua, per un errore (se così lo si può definire) della polizia e nessun giornale italiano ne ha parlato.
La situazione è cambiata in questi giorni, perché la morte di George Floyd ha fatto notizia in tutto il mondo, comparendo in una serie di titoli di giornali di diverse nazionalità. Ha aiutato il diffondersi di questa notizia la presenza di un video, che è stato diffuso senza alcuno scrupolo, che rappresenta l’uccisione del giovane ragazzo. Io il video non lo ho guardato, per rispetto nei confronti di George e di quella fetta della comunità nera statunitense che che da giorni chiede a gran voce di smettere con quella che viene definita la “pornografia del trauma”. Non serve vederlo, però, per capire che sia un video crudo e doloroso, e che queste caratteristiche hanno colpito chi lo ha guardato, magari accidentalmente. Ad ogni modo, tra i molti articoli riportanti la notizia di George Floyd, in qualcuno spunta il nome di Breonna Tayler, ma come breve esempio di un’altra persona nera uccisa dalla polizia nelle scorse settimane negli USA.
Prima di iniziare, a breve lo giuro, a descrivere i fatti che hanno coinvolto le ultime ore di vita della giovane ragazza statunitense, vorrei scrivere un’ultima cosa, che credo sia doveroso precisare: io, Elisa, che sto scrivendo questo articolo, sono una ragazza di 24 anni, nata in Italia e nata bianca.
Per quanto io possa definirmi antirazzista, ho dentro di me quel razzismo interiorizzato che è conseguenza diretta del crescere e del vivere in una società e una cultura profondamente razzista. Indipendentemente da quello che penso o da come agisco, la mia pelle è socialmente definita bianca e questo mi fornisce automaticamente una serie di privilegi che dipendono solo ed esclusivamente da questo fatto, da niente di più e niente di meno. Credo profondamente che chi possa parlare delle situazioni di oppressione vissuta, possa essere solo chi quelle situazioni effettivamente le vive, altrimenti si rischia di parlare non per qualcuno, ma al posto di qualcuno. Si rischia di sostituirsi, di prendere voce su un argomento da cui non si è colpiti in prima persona e di togliere visibilità a chi parla da tempo delle discriminazioni subite, ma per l’ennesima volta non viene ascoltato.
Il mio obiettivo non è, dunque, quello di parlare al posto di chi è vittima di discriminazioni razziste, ma è quello di scrivere su chi fosse Breonna Taylor e di cosa le è successo, affinché anche chi parla solo italiano possa esserne al corrente. Trovo vergognoso che in Italia la notizia sia stata considerata poco importante, e ritengo doveroso fare qualcosa per rimarginare questa situazione.
Noi, white allies (“alleati bianchi”), non dobbiamo sostituirci, ma come spiega bene l’attivista Leah V in uno dei suoi ultimi post, non basta condividere hashtag e foto, perché non ci renderanno meno colpevoli. Siamo stati noi bianchi a creare un sistema oppressivo ed è nostro compito smontarlo, decostruirlo. Sta a noi responsabilizzarci e lottare insieme alla black community stando in prima linea, proteggendo i corpi di chi è obbligato a combattere questa battaglia con i nostri, che tanto la polizia non tocca.
E come sottolinea Espérance Hakuzwimana Ripanti, va bene sdegnarsi per quello che succede al di là dell’oceano, ma non dobbiamo dimenticarci di continuare a lottare per quello che succede qui, in Italia, perché è inutile informarsi su qualcosa di lontano e che ci riguarda limitatamente, se dove viviamo tutti i giorni continuiamo a discriminare ogni minoranza.
Speriamo che quello che sta succedendo negli Stati Uniti sia, dunque, la miccia di una rivoluzione universale, in cui finalmente noi persone bianche iniziamo a responsabilizzarci e a decidere di impegnarci in prima persona, mettendoci in discussione e cominciando a cambiare i nostri atteggiamenti quotidianamente, nel qui e nell’ora, risolvendo una volta per tutte questa situazione insostenibile.
Cosa è successo a Breonna Taylor
Breonna ha 26 anni e lavora come EMT, che in Italia corrisponde più o meno ad un paramedico specializzato nel fornire assistenza in condizioni emergenziali. Nata in Michigan, ha frequentato l’università a Louisville, in Kentucky, dove è poi rimasta a vivere.
La notte del 13 marzo 2020 Breonna è in casa sua, insieme al compagno che quella sera si è fermato a dormire da lei, Kenneth Walker, 27enne nato a Louisville. Poco prima delle 1 di notte, Kenneth e Breonna stanno dormendo, quando si accorgono che qualcuno sta cercando di entrare in casa. Stando a quanto affermerà il suo avvocato, Kenneth tenta di chiamare la polizia e insieme alla ragazza chiede a chi sta fuori dalla porta di identificarsi, ma senza ricevere risposta. All’improvviso quella porta “esplode” e tre uomini entrano armati; lui spara alla gamba di uno di loro, con la pistola che detiene legalmente. I tre uomini iniziano a sparare, più di venti colpi, e Breonna viene uccisa, colpita da otto proiettili. Come egli stesso dichiarerà successivamente, per prima cosa lui chiama la propria madre, che gli dice di telefonare subito al 911. Così parte la chiamata al pronto soccorso, dove implora disperatamente di essere aiutato. Afferma che qualcuno è entrato in casa sua e ha sparato alla sua compagna, che ora è priva di sensi e sta perdendo sangue. Durante la telefonata con l’operatrice del 911 lui non sa rispondere alla domanda su chi le abbia sparato. Dopodiché chiama la mamma di Breonna ed è solo mentre è al telefono con lei che si accorge che gli uomini entrati in casa sua erano poliziotti.
Questi tre uomini erano effettivamente poliziotti (del Louisville Metro Police Department), e sono entrati in casa di Breonna perché avevano un mandato, firmato dalla giudice Mary Shaw. Il mandato li autorizzava ad accedervi perché vi era la presunzione che un altro uomo, con un passato di spaccio e che Breonna frequentava due anni prima, usasse la casa della ragazza per vendere e nascondere la droga, con il fine di deviare i sospetti dalla propria dimora, che si trova a più di 16 chilometri di distanza da quella di Breonna. L’uomo, però, era stato già arrestato qualche ora prima e nella casa di Breonna non è stata trovata alcuna sostanza.
A differenza di quanto affermato da Kenneth, la polizia dichiara di essersi annunciata prima di entrare in casa, ma quello che sappiamo è che il mandato firmato dal giudice era un “no-knock” (letteralmente “no-bussare”) e che i poliziotti confermano di essere entrati con un ariete. Le loro auto non erano identificabili, così come non lo erano i loro indumenti. Anche alcuni vicini di casa hanno chiamato la polizia, spaventati da quello che stava succedendo, senza capire che fosse in atto un’operazione della polizia stessa. Kenneth non nega di aver sparato, ma dichiara di averlo fatto per legittima difesa e che se lui e la ragazza avessero saputo che la polizia voleva entrare in casa, avrebbero aperto loro la porta.

Non ci sono riprese che fungano da prova di ciò che è avvenuto, perché i poliziotti non indossavano telecamere, ma abbiamo alcuni elementi che possono contribuire a ricostruire in parte ciò che è successo, come le foto rilasciate dall’avvocato della famiglia di Brianna, Benjamin Crump, che mostrano i segni dei proiettili presenti in casa della ragazza. Come riportato dalla CBSN, è dimostrato che i poliziotti hanno sparato da molteplici posizioni, vi sono infatti segni di proiettili in cucina, nel bagno, in camera da letto, nella porta di ingresso e all’entrata, che potrebbero dimostrare che i poliziotti hanno sparato pur non avendo una visuale.
Ciò che è sicuro è che Kenneth Walker è stato arrestato meno di venti minuti dopo gli spari che hanno ucciso la sua ragazza, accusato di tentato omicidio di un agente di polizia e assalto di primo grado. La sua udienza è fissata per il 25 giugno e lui è stato spostato dal carcere agli arresti domiciliari. Questa notizia ha disturbato l’ordine della polizia di Louisville (la River City Fraternal Order of Police), che ha dichiarato tramite facebook che gli arresti domiciliari per Walker sono uno schiaffo in faccia a tutti gli agenti di polizia, e che lui è una minaccia non solo per gli uomini e le donne delle forze dell’ordine, ma anche per tutti i cittadini della comunità che proprio quelle forze dell’ordine hanno l’obiettivo di proteggere.
Le reazioni degli attivisti e la pressione mediatica nei confronti della vicenda sono state tante e in particolar modo la pubblicazione delle registrazioni delle chiamate alla polizia e al 911 di Kenneth e dei vicini avvenuta qualche giorno fa, han fatto sì che il procuratore del Commonwealth Tom Wine abbia annunciato in una conferenza stampa che il suo ufficio si muoverà per archiviare il caso penale contro Walker, ma crede che sia necessario fare ulteriori indagini e che se queste daranno prove sufficienti per tornare al grand jury (cioè a quell’assemblea che valuta se vi sono prove sufficienti per iniziare un processo nei confronti di una persona), i procuratori lo faranno e Walker potrà, se vorrà, testimoniare. Il 22 maggio, tutte le accuse nei confronti di Kenneth sono state ritirate. I tre poliziotti sono stati ricollocati in aree amministrative.
Le proteste
Se all’inizio il caso di Breonna non ha ricevuto molta attenzione, ha invece raggiunto molte persone grazie all’attività di alcuni attivisti, e il 26 maggio 2020 molta gente ha protestato circondando l’ufficio del sindaco di Louisville Greg Fischer, domandando che i tre agenti venissero arrestati e processati per omicidio. Nei giorni successivi le proteste sono continuate e hanno coinvolto molte persone, intensificandosi particolarmente giovedì 28, quando 7 persone sono state colpite dai dei proiettili. Il sindaco della città, Greg Fischer, ha annunciato che cinque persone sono state ferite e due hanno subito un intervento chirurgico, ma che la polizia non ha sparato. Alcuni video sembrano dimostrare che gli spari hanno colpito dei manifestanti mentre circondavano un’auto di polizia, ma la Louisville Metro Police Department ha dichiarato che sia ancora troppo presto per determinare chi sia responsabile di questi spari.

Sebbene siano state ritirate le accuse fatte nei confronti di Kenneth Walker, lascia allibiti il modo in cui tutta questa questione sia stata gestita. I poliziotti entrano all’una di notte senza annunciarsi nella casa di una ragazza sospettata di aiutare un ragazzo che è già stato arrestato, la uccidono con più di otto colpi di pistola e poi arrestano il compagno che ha tentato di difenderla e di difendersi. I poliziotti non vengono condannati o indagati, ma ricollocati in altre aree. Il ragazzo viene messo agli arresti domiciliari, nonostante possa essere considerato la vittima di questa situazione, e i portavoce della polizia locale si indignano perché la pena dovrebbe essere più severa, denigrandolo e definendolo un pericolo per la comunità.
Un pericolo.
Lui.
In vari stati, attualmente, ci sono proteste per le strade, piene di persone che, stufe e straziate da questa situazione, domandano giustizia, urlando a più voci quello che sta diventando lo slogan più rappresentativo di queste ondate di dimostrazioni: “no justice, no peace, prosecute police” che tradotta significa “Senza giustizia, nessuna pace. Processa la polizia”.
Ed è vero, senza giustizia non può esistere pace. Chi è stato ucciso merita giustizia, così come merita giustizia chi rimane in vita e viene condannato ingiustamente.
Giustizia per Breonna.
Giustizia per Kenneth.
La vita delle persone nere conta.
#Blacklivesmatter
Mi hai fatto tornare in mente questo splendido film contro il razzismo: https://wwayne.wordpress.com/2017/03/19/ci-sposeremo-te-lo-prometto/. L’hai visto?
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