Questo articolo è stato scritto da Fabrizia Bonechi per la prima volta nel 2018 (qui), ma, essendo sempre attualissimo, ce lo ripropone per questo International Whores Day* (letteralmente la Giornata Mondiale delle Puttane). Grazie a Giulia di Loreto per averci segnalato gli interessanti nuovi post di instagram inclusi nell’articolo.
* Che cos’è? Lo trovate qui
Quando parliamo di sexwork, vengono fuori moltissime obiezioni dalle abolizioniste. Purtroppo, poco fondate. Vediamole per punti.
- Il primo e più grande luogo comune è senza dubbio l’equiparazione del sex work alla tratta di esseri umani: non c’è niente di più infondato. Per sex work, infatti, s’intende il lavoro in ambito sessuale in generale, non solo la prostituzione. E nel caso di quest’ultima si usa il termine sex work proprio per distinguere nettamente l’attività volontaria ed autodeterminata delle lavoratrici del sesso dalla condizione di schiavitù sessuale. E non solo per questo motivo, come spiegherò più avanti.
Anche l’uso del termine “tratta” al singolare è impreciso e fuorviante, se non viene specificato di cosa si parla. Esistono infatti due tipi di traffico illegale di esseri umani:
SMUGGLING, ossia il trasporto clandestino di persone che scelgono volontariamente di pagare organizzazioni illegali per raggiungere il luogo di destinazione desiderato. Alla fine del viaggio, sempre ammesso che vada a buon fine, il rapporto con i trafficanti si conclude. C’è chi riesce a raccogliere fondi sufficienti nel proprio paese di origine e chi paga con i proventi del lavoro svolto nel luogo di approdo fino ad estinzione del debito.
TRAFFICKING, tratta vera e propria, in cui le persone vengono reclutate con l’inganno o la coercizione, diventando oggetto di compravendita per il lavoro nero, il racket dell’accattonaggio, la schiavitù sessuale, l’espianto di organi.
È evidente che stiamo sì parlando di organizzazioni criminali in entrambi i casi, viste anche le politiche repressive di frontiera dei vari stati europei, ma nel primo non c’è dubbio che ad utilizzare i trasportatori clandestini siano persone che sanno perfettamente ciò che vogliono e che si adoperano come meglio possono per ottenerlo. E quel che vogliono è poter vivere in luoghi più sicuri e più promettenti sotto il profilo economico. In questo senso, vi sono numerose testimonianze di sex workers che hanno raccontato le circostanze e il loro modo di organizzarsi per lavorare in Europa come sw, appunto. Alcune di loro sono rimaste nel luogo dove sono emigrate, altre sono tornate in patria dopo aver guadagnato abbastanza da poter garantire un futuro ai propri figli. - “Ah, adesso le puttane si chiamano sex workers“: una becera osservazione che mi sono sentita fare spesso dal fronte abolizionista. Vorrei che fosse chiaro una volta per tutte che non si tratta di uno dei tanti inglesismi modaioli, ma di un termine coniato nel 1980 da Carol Leigh, attivista del gruppo statunitense Coyote, fondato nel 1973 e prima organizzazione al mondo ad occuparsi dei diritti delle sw. Il termine, in seguito adottato a livello internazionale dai vari comitati e sindacati, nacque proprio per combattere lo stigma sociale della puttana Perché parliamo non solo di una delle categorie più perseguitate al mondo, ma anche più denigrate, stigmatizzate persino all’interno di certi femminismi, spesso borghesi e sessuofobi.
- Veniamo ora al luogo comune per eccellenza dell’abolizionismo italiano: “la prostituzione in Italia è già legale“. Legale, in questo preciso contesto giuridico, significa che non vengono penalmente perseguite vendita e acquisto di prestazioni sessuali. Ma è penalmente rilevante ogni attività collaterale al fine di esercitare la prostituzione. Due sw, per esempio, non possono condividere lo stesso appartamento dove esercitare la loro attività, perché per la nostra legislazione si tratta di un “bordello”. Se qualcuno decide di affittare una casa a due sw, lo fa a suo rischio e pericolo, perché può essere facilmente accusato di sfruttamento e/o favoreggiamento. Questo è uno dei motivi per cui le sw si trovano costrette a lavorare in solitudine, in luoghi isolati e pericolosi. Una sw non ha diritto ad assumere collaboratori, come guardie del corpo o persone che svolgano compiti amministrativi e di segretariato.
- Il fronte abolizionista porta come esempio di modello giuridico ambito dalle sw quello tedesco o “regolamentato”: niente di più falso. In Germania, così come in Olanda, si esercita la prostituzione in luoghi appositamente preposti; le sw sono sottoposte a controlli sanitari obbligatori invasivi e a registrazioni. Di fatto delle vere e proprie schedature. Inoltre occorrono licenze il cui iter burocratico è lungo e costoso, avvantaggiando così la ricca imprenditoria e svantaggiando le sw più povere e chi ha immediato bisogno di un reddito. Quindi si trovano a dover lavorare alle dipendenze di ricchi imprenditori che nella maggior parte dei casi sono sfruttatori senza scrupoli. Praticamente l’opposto di ciò che vogliono le sw. Anche il tanto sbandierato modello svedese o nordico, che non ha affatto indebolito il trafficking come molti sostengono, è fallimentare dal punto di vista dei diritti delle sw, perché punisce penalmente i clienti, costringendole così a lavorare in luoghi poco sicuri, ad abbassare le loro tariffe e ad accettare richieste pericolose per poter continuare a lavorare, contando solo sulla clientela più spregiudicata. Il modello che più si avvicina alle richieste delle sw è quello neozelandese, molto più semplice dal punto di vista amministrativo-burocratico, più rispettoso delle identità, meno invasivo e completamente depenalizzato. Il che, ovviamente, costituisce un fattore di stimolo per le sw nel denunciare eventuali situazioni di abuso e coercizione di cui venissero a conoscenza.
- “Amnesty International ha preso una cantonata“: questo, fra tutti, è davvero il luogo comune più incomprensibile. Voglio dire, come si fa a muovere un’accusa del genere ad un’organizzazione internazionale che si occupa di diritti umani e che ha promosso una risoluzione per la depenalizzazione del sex work (11/8/2015) dopo anni di indagini a livello globale, colloqui e incontri con i sindacati di sw provenienti da mezzo mondo? Se il 70% delle sw si appoggia ad organizzazioni criminali per ottenere protezione in cambio di una cospicua parte dei loro guadagni, il motivo è proprio questo: i governi non rispettano e non garantiscono i loro diritti umani e civili. Quindi no, la risoluzione per la decriminalizzazione internazionale del sex work, decisamente non è una “cantonata”. E a proposito di ingiustizie, guardando in Italia, le sw pagano GIÀ le tasse, a dispetto dei deliri di un Salvini in campagna elettorale. Ci sono sentenze della Cassazione in proposito, ma nessuna indicazione su come si possa concepire il dovere fiscale delle sw con la mancanza dei loro diritti e delle tutele concessi dallo stato agli altri lavoratori.
- L’obiezione dell’abolizionismo alla volontarietà del sw: “una scelta non è tale se dettata dalla necessità economica“. Ah, che scoperta! Come se la gente lavorasse per divertimento. Certo, ci sono persone particolarmente fortunate o privilegiate che riescono a coniugare necessità economica e interesse personale per la loro professione, ma non sono certo la maggioranza. A parte il fatto che esistono sw cui piace fare questo lavoro o che l’hanno preferito ad uno sottopagato, umiliante perché magari costrette a subire molestie dal proprio datore, vorrei sapere perché si parla di costrizione economica solo in relazione al sex work. Forse perché c’è un problema di sessuofobia da parte di un certo femminismo puritano che ha stabilito quali attività sono dignitose per tutte e quali no.
- L’anticapitalismo della domenica. Ecco la classica scusa con cui il fronte abolizionista punta il dito sulle sw:”sono tutte schiave del neoliberismo che sfrutta i corpi delle donne”. Anche qui: le (persone) sex workers non sono solo donne, tanto per cominciare, ci sono anche uomini e persone transgender. Non parliamo di un numero esiguo (e anche fosse?), ma di percentuali del 20/30% sulla prostituzione totale nelle maggiori aree metropolitane del globo. Ma torniamo all’anticapitalismo della domenica: quello di chi da una posizione socio-economica di privilegio o di relativa comodita’ conduce una battaglia ideologica fatta di apparenza sulla pelle di una categoria di persone particolarmente oppressa, trasformando una questione di diritti in un dibattito per femminismi da salotto. Perché liberale o socialista che sia, l’economia si fonda sullo sfruttamento delle vite, dei corpi, delle menti, delle risorse, delle competenze delle persone. Per dirla con Proudhon, “l’economia è in sé criminale”. Non chi cerca di vivere o sopravvivere usando il proprio corpo in un sistema che non ha scelto.
- “Una donna che vende il proprio corpo danneggia tutte“ o il sempreverde “una donna che vende il suo corpo vende anche il mio“. Questi, più che luoghi comuni, sono slogan che si scontrano prepotentemente con due assunti fondamentali del femminismo: ossia che le donne sono persone, singoli individui capaci di autodeterminarsi e che la loro libertà sessuale è insindacabile. Anche quando decidono di monetizzarla.Dietro questi slogan si cela la tipica mentalità patriarcale/maternalista che ha sempre diviso il corpus unico “donne” tra sante e zoccole.
- Tralasciando il puntuale e inquietante silenziamento delle sw da parte dell’abolizionismo, che da solo basta già a capire come possano proliferare luoghi comuni e mistificazioni varie, veniamo alla solita, retorica domanda dell’abolizionista-tipo: “tu lo faresti?“, la cui variante talvolta è “vorresti che tua figlia lo facesse?” (il figlio non è mai contemplato). Ebbene, a queste domande oziose preferisco questa: se le circostanze ti portassero a svolgere questo lavoro, cosa vorresti? Io so cosa vorrei: il rispetto per la mia persona, per la mia dignità di essere umano, l’estensione dei diritti e delle tutele degli altri lavori anche per il mio, sicurezza e possibilità di scegliere il luogo in cui mi sento più a mio agio ad esercitare la mia attività. In pratica, quello che le sex workers di tutto il mondo chiedono. Perché non è necessario immedesimarsi in loro, ma è doveroso ascoltarle e supportarle nella loro battaglia. La mia coscienza di essere umano, donna, femminista, me lo impone.
E tu, cosa vorresti?
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