Cos’è un call-out? Un vademecum per gli spazi d’attivismo – SLUM

L’immagine di copertina è la stessa del gruppo SLUM, la scritta sotto la mano di Fatima col medio alzato significa “prendi!”


In questi anni di attivismo noi utenti del gruppo SLUM – l’angolo contro-verso (spazio femminista di Sono l’unica mia.) abbiamo elaborato varie strategie di comunicazione funzionale per gestirci su Facebook e creare meno flame possibile. Col tempo abbiamo dato sempre più forma al gruppo privilegiando la pratica dello spazio (più) sicuro (safer space), così l’esigenza di lavorare su noi stessu e sulla collettività e allo stesso tempo acquisire degli strumenti o di condividerli con lu altru si è fatta più forte.

Abbiamo scelto la nostra parola d’ordine (la safe-word), fatto autocoscienze, riflettuto su come si danno i feedback e su come evitare le dogpile (polarizzazioni che creano un affollarsi di commenti in risposta a un primo). Soprattutto abbiamo riflettuto su che cosa sia un call out.

Un ‘richiamo’ rivolto a unu utente, per aver scritto affermazioni o assunto comportamenti razzisti, sessisti, omobitransfobici, abilisti, o in altro modo oppressivi o intolleranti.

Il ‘call out’ è uno strumento molto utile in gruppi di discussione e di attivismo come lo spazio del nostro progetto ed è fondamentale per mantenere uno spazio il più safe possibile. La ‘cultura del call-out’ è stata tuttavia criticata in alcuni ambiti di attivismo come potenzialmente tossica: perché può essere estenuante fare call out in ambienti non safe, o perché può trasformarsi in ‘shaming’ e diventare controproducente.

Il call out è uno strumento, e in quanto tale può essere usato in modo costruttivo o distruttivo. Proponiamo qui alcune ‘linee guida’ su come fare e ricevere un call-out, che possano essere utili a mantenere gli spazi safer; facciamo l’esempio di Internet, ma tutto quello che leggerete è applicabile alla vita di gruppo fuori dai social.

Come fare un call out

1. Chiarisci (prima di tutto a te stessu) la tua posizionalità. Come ti collochi sull’asse di oppressione che si sta discutendo? Se fai parte della categoria oppressa (si parla di razzismo e sei una persona nera, di sessismo e sei una donna, di omo/bi/lesbo/fobia e sei una persona omo/bi//lesbo/trans+) puoi senza dubbio ricorrere al call out, anzi, lo strumento è pensato per te. Se sei unu privilegiatu alleatu preparatu sull’argomento, il tuo call out è benvenuto, ma cerca di non fare lu ‘performative ally’: al centro non ci sei TU né la TUA rabbia, ed è sempre preferibile non farsi protagonisti ma dare voce a persone appartenenti alla categoria oppressa (linkando articoli/video dove siano loro a parlare etc.). Se sei unu privilegiatu non preparatu sul tema specifico, valuta se non sia meglio tacere. NON sono accettabili, in NESSUN caso, call out per ‘razzismo inverso’, ‘misandria’, ‘eterofobia’ e simili creature mitologiche.

2. Mantieni la calma. Sappiamo molto bene quanto possa essere estenuante dover spiegare la violenza sistemica a chi è privilegiatu o comunque non coscientizzatu. Per quanto comprensibile, la rabbia e l’aggressività servono di rado a smuovere opinioni e rischiano di far passare per vittima la persona cui è rivolto il call out. Se ti senti troppo triggeratu, di’ la safe-word e tagga un mod/admin. Ci sono alleatu che possono sostenerti mantenendo la calma, abbi fiducia nel gruppo in cui ti sei inseritu.

3. Evita l’attacco personale o forme di shaming. E’ fondamentale distinguere l’azione razzista/sessista/abilista/omobitransfobica (etc.) dalla persona, e rivolgere il ‘call out’ alla prima. Certamente esistono persone fieramente convinte dei propri pregiudizi, incapaci di cambiamento e pericolose, ma siamo cresciutu tuttu in una società oppressiva e abbiamo tuttu interiorizzato la violenza sistemica in modi che sono difficili da decostruire. Nel dubbio, è bene sempre presumere che il commento o comportamento oppressivo sia dettato da ignoranza in buona fede.

4. Sii precisu e direttu. Spiega dov’è il problema nel modo più preciso e diretto possibile, e fornisci link di approfondimento quando sia possibile

Come reagire a un call out

1. Chiarisci (prima di tutto a te stessu) la tua posizionalità. Prima di rispondere a un call out, chiarisci a te stess* come ti collochi sull’asse dell’oppressione citata, per capire se abbia senso. Se arriva da una persona appartamente a una categoria oppressa laddove tu appartieni a quella privilegiata, la risposta è senza dubbio SI’, ed è bene porsi in modalità di ascolto e aspettare un po’ prima di rispondere alcunché.

2. Mantieni la calma. E’ perfettamente normale provare sentimenti negativi (rabbia, frustrazione, vergogna, senso di offesa) quando si riceve un call out. A nessunu piace sentirsi criticatu, ma a meno che tu non pensi che la violenza sistemica non esista (nel qual caso gruppi come il nostro forse non fanno per te) ricorda che contrastare il problema è infinitamente più importante del tuo orgoglio ferito. Cerca di mantenere sotto controllo le emozioni negative, e se non ci si riesci puoi dire la safe-word che è stata decisa dal gruppo (la nostra è la #zebra).

3. Non prenderla sul personale. Ricorda che il problema non sei tu, ma il tuo privilegio; nessunu è perfettu, tuttu sbagliano, e i call out sono un ottimo modo per crescere e migliorarsi, ma perché ciò avvenga è necessario evitare di cadere nel loop ‘mi ha detto che ho detto una cosa sessista allora vuol dire che sono una persona orribile’. Parti dal presupposto che hai fatto un errore, che capita: l’importante è non farlo più (o impegnarsi al meglio perché non accada più).

4. Mettiti in posizione di ascolto e incassa il call out. Presumi che chi fa parte di una categoria oppressa ne sa più di te che non ne fai parte, soprattutto se è unu attivista e soprattutto se tu non sei unu espertu. Valida le emozioni e le esperienze di chi ti fa il call out, senza negarle o sovradeterminarle, mostrando empatia per l’oppressione che ha dovuto subire, anche se pensi che con te abbia ‘sbagliato mira’ o abbia reagito in modo eccessivo. Scusarsi è apprezzabile, ma soprattutto sono da evitare assolutamente negazioni (‘ah non è vero io non potrei mai dire/fare qualcosa di oppressivo’, ‘io non sono razzista’), spiegoni da pseudo-espertu, invocare ‘prove’ della propria bontà (‘ho tanti amici gay’, ‘mia moglie sa che non sono sessista’), giustificazioni arzigogolate, sarcasmo, e simili amenità. Se la prima regola di unu alleatu è che il call out si incassa, incassare non significa accettare passivamente: se il call out ti sembra senza senso, se non capisci o hai dubbi, FAI DOMANDE in modo gentile. Chiedere chiarimenti non solo è lecito, ma raccomandabile, perché aiuta a crescere te stessu, l’altru, e chiunque legga la discussione.

Farsi un auto-call out

Può capitare di accorgersi di aver detto una baggianata. Aver detto la parola sbagliata, essere intervenutu in modo inopportuno, aver preferito il supporre piuttosto che chiedere o aver assunto un atteggiamento scorretto.

Non aspettare che qualcunu ti faccia un call out se ti rendi conto di non aver agito bene. Correggiti subito, ci sono molti modi per farlo: ammettendo l’errore, manifestando la volontà di migliorare, chiedere del tempo per riformulare quello che hai detto. E’ un comportamento infinitamente migliore del nascondersi dietro alla “libertà di parola” o creare ulteriormente tensione!

E’ una buona pratica che ti farà sentire fieru di te stessu e farà sentire le persone che hai vicino più sicure (e meno snervate, talvolta) del tuo impegno per migliorarti, per mantenere l’armonia dello spazio e della tua volontà di ascoltare. In uno spazio sicuro tuttu devono sentirsi sicuru di poter fare un call out a persone recettive senza sentire di star educando un muro, a compagnu che possono chiedere e usare Internet per scoprire quel che non sanno.

Mettere da parte l’orgoglio e ‘scoprirsi’ è un atto coraggioso.

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(Personal Caption Alert). In honor of vulnerability, I will be sharing a piece of my soul with you today.⁠ 🖤⁠⠀ ⁠⠀ Some of you might know that Yemen is my home country. I immigrated to the US when I was 22. The circumstances of my moving here were not predictable, nor planned. When Saudi Arabia started mercilessly bombing Yemen in March 2015, I was in the US, and physically couldn't go back. I ended up moving here permanently (a complicated story for another day).⁠⠀ ⁠⠀ I reunited with my family for the first time in 4 years in October 2018, when they were able to meet me outside of Yemen. My parents and siblings had to travel for 48 hours (by land and by air) to get to Lebanon, which is usually a 3-hour flight away. This is due to an air blockade enforced by Saudi Arabia, keeping Yemenis hostage.⁠⠀ ⁠⠀ I don't talk about this often, and it’s difficult for me to share. It's too painful and too fucking scary. Yemen is my home. It's where ⁠my parents, siblings, nephews, friends, and family live. They are at risk everyday. It's where innocent lives are needlessly lost. ⁠My pain is in no way comparable to that of my family and all Yemenis who are experiencing this war firsthand.⁠ They deserve so much better!⁠⠀ ⁠⠀ Yemen has gotten a decent amount of attention on social media lately and that makes me hopeful. However, the war has been ongoing for over 5 years, with no end in sight.⁠ ⁠⠀ ⁠⠀ Yemen is currently facing the world’s worst humanitarian crisis and U.S. companies are profiting from this conflict by providing deadly weapons. Airstrikes have mostly killed civilians and have targeted hospitals, schools, weddings, and markets. The sea and air blockade are restricting Cholera and COVID-19 relief efforts. ⁣⁠⠀ ⁠⠀ I am simply sharing my heart with you today. I am by no means a resource. You can click the link in my bio for a few resources on what's happening in Yemen, how you can help, and places to donate.⁠⠀ ⁠⠀ Thanks for listening.⁠⠀ ⁠⠀ ⁠☾ 100% of today’s shop profits will be donated to the Yemen Relief and Reconstruction Foundation – link in bio.

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