Lei mi ha stuprato e lo racconto perché la violenza non è come credi – SLUM

La violenza non è solo quella di uno sconosciuto che ti prende per i capelli e ti porta in un vicolo per stuprarti, succede ed è pura violenza e tuttavia non è la sola ad esistere. Avviene anche in casa, in modi subdoli e meschini.

L’intento è annullarti e scarnificarti e il carnefice (la, lu carnefice) sa dove colpire. In questa storia è evidente anche l’intenzione svilire l’identità di genere del survivor e il suo percorso: nelle relazioni violente anche la nostra queerness viene repressa e ridicolizzata.

Ringraziamo di cuore questo Anonimo per averci mandato la sua testimonianza di stupro e di relazione violenta affinché chi legge possa comprendere come funzionano le dinamiche di queste circostanze.

TRIGGER WARNING: STUPRO, DISFORIA E VIOLENZA TRANSFOBICA, RELAZIONE VIOLENTA

La disegnatrice della copertina è FrizzKidArt, la trovate qui su Instagram.
Nell’immagine: una mano dalla pelle scura tiene una rosa gialla ed è ferita dalle sue spine, lo sfondo è verde chiaro e la scritta recita (traduzione) “Tuttu lu sopravvissutu sono coraggiosu, tutte le vittime sono coraggiose”.


Spesso, quando vengono messe in campo delle violenze, si sente ripetere la solita frase che inverte le parti e colpevolizza la vittima dell’accaduto, “Perché ci ha messo così tanto tempo, a denunciare i fatti? Non poteva farlo prima?”. La verità è che ci sono tanti modi per agire violenza su un’altra persona e, soprattutto, non è detto che uno stupro debba avvenire per forza di notte, per strada, in un vicolo cieco, e quando ci sei dentro, a certe dinamiche, e all’improvviso accade, potresti non riuscire neanche tu a capire bene cosa stia succedendo.

Era il 29 giugno del 2016, il giorno in cui la mia vita è cambiata e non sono più stato lo stesso.

Ricordo che, quando ci conoscemmo, qualche anno prima, lei si presentò ai miei occhi semplicemente come perfetta. Io venivo da un periodo personale molto difficile, stavo affrontando un percorso di cambio di sesso, la mia famiglia era in guerra aperta con me, avevo perso persone per me fondamentali, a causa del mio coming out in quanto transgender, ed ero fragile, vulnerabile, disperatamente bisognoso di amore, disperare che, da qualche parte, ci fosse almeno un briciolo di affetto e di calore anche per me. Lei si presentò esattamente in quel modo, calorosa, affabile, attenta ascoltatrice, complice appassionata, fedele accompagnatrice dei passaggi più delicati della mia vita, la mia seconda nascita, il cammino che avevo intrapreso per poter arrivare ad avere, finalmente, un corpo che sentissi mio.

I primi due anni di relazione furono quanto di più bello io avessi mai toccato con mano, fino a quel momento. La sua abilità di vendere fumo mi aveva completamente stregato, ero disarmato, avevo abbassato tutte le mie difese, ceduto la possibilità di essere comandato, governato, orientato a suo piacimento. Ero manipolabile, lo ero diventato perché lei, nella fase di love bombing, aveva saputo toccare esattamente tutte le corde che, in quel mio periodo di fragilità, erano più facili da tirare e da orientare come preferiva, i fili di una marionetta nelle mani di un mostro.

Quando arrivai a fare gli interventi per il cambio di sesso, cominciò ad esternare il suo primo abuso verbale nei miei confronti. Io ero al settimo cielo, finalmente ero riuscito a sbarazzarmi di quelle parti del mio corpo che mi erano insopportabili e che mi laceravano con la disforia, e lei, nel momento in cui provavo maggiore gioia, mi disse, con noncuranza, la facciata che nascondeva tutta la sua brutalità: “Certo che potevi tenerle, un po’ di tette, a me piacevano.”
Mi sentii morire. Non ebbi la capacità e la forza di osservare l’accaduto con sufficiente distacco lucido, però, no. Questo no. Le carte che aveva giocato nel periodo del love bombing erano state ben piazzate, i fili della marionetta in cui mi aveva trasformato erano tesi, saldi nelle sue mani, e io ero disorientato, incapace di comprendere come la persona che diceva di amarmi, quella che avrebbe dovuto amarmi di più al mondo, che conosceva benissimo le mie sofferenze, che sapeva il significato, l’importanza che aveva quell’intervento, per me, potesse essere così spietatamente crudele.

Confuso, stordito dalle manipolazioni avvenute fino a quel momento, intossicato dalla presa che aveva acquisito su di me, non riuscii a puntare il dito contro di lei, mi dissi che magari avevo capito male, che non era possibile che lo avesse detto veramente, e andai avanti quasi come se niente fosse.

Quella frase, in realtà, fu l’inizio del cambiamento. A poco a poco, giorno dopo giorno, lei passò dall’apparente, idilliaca amorevolezza iniziale ad una subdola, contorta fase di gaslighting, aumentando costantemente la dose di frecciate, screditamenti, violenze verbali e mentali. Il tempo scorreva, io continuavo a non trovare una quadra in quanto stava accadendo, shakerato nell’ambivalenza dei suoi rinforzi intermittenti, a volte amabile, a volte crudele, e mano a mano la mia presa su di me scendeva, sempre di più, erodendo la mia personalità, la mia lucidità, la mia autostima. Mi stavo trasformando lentamente in un vegetale.

Quando arrivò quel giorno d’estate, resistevano brandelli sconnessi di me, stralci che, convinto che la colpa dovesse essere mia, che dovessi essere io, quello sbagliato, la causa di quelle sue azioni, non mi permisero di prendere le dovute distanze. Ero quasi anestetizzato.

Ricordo che eravamo a casa mia, nel mio letto, nel nostro letto. Quello che doveva essere il nostro rifugio sicuro contro la merda del mondo. Ero in ginocchio, piegato sul materasso, lei dietro di me, stavamo facendo sesso, intenso, doloroso, brutale. Lei non aveva mai fatto così, prima di allora. Ad un certo punto, mi accorsi che avevo smesso di respirare. Non so quale brandello di basico istinto mi abbia fatto reagire, in quel momento, trovai in qualche modo la capacità di scansarmi, di cambiare posizione, ma non capii esattamente cosa fosse accaduto. Me ne accorsi dopo, quando tutto era finito, mentre passando davanti allo specchio notai la striscia sul mio collo. Portavo una catenina, allora, con appeso l’anello di fidanzamento che lei mi aveva regalato. Sulla mia gola, era impresso il marchio rosso della forza bruta con cui lei l’aveva tirata, rischiando di soffocarmi. Il sedere era cosparso dei segni dei suoi morsi, quei morsi che mi avevano fatto gemere di dolore e che lei aveva giustificato asserendo che pensava mi stessero piacendo. La mia carne era rossa, livida, le tracce dei suoi morsi in rilievo, un tappeto che mi rendeva perfino impossibile sedermi, quella sera, da tanto mi faceva male.

Ci sono dettagli che, quel giorno, una parte della mia testa decise di omettere, per legittima difesa, perché non avrei retto il colpo della verità. Passarli sotto silenzio, però, non cancellò lo stranimento per quanto vissuto, quella sensazione retrostante di pericolo che una parte di me, nonostante tutto, mi stava urlando a pieni polmoni. Diluii i contatti fisici, di seguito, e questo aumentò in lei gli attacchi verbali, le smerdate, gli screditamenti, gli attacchi gratuiti, per cercare di minarmi ancora più nel profondo e disintegrare definitivamente la mia personalità, in quella relazione fatta di violenze e di giochi di potere e di controllo che non ero mai stato in grado di vedere davvero, prima.

Non so cosa mi abbia salvato, con esattezza, non saprei dire quale parte di me sia stata capace di iniziare a farmi vedere quelle svalutazioni, quelle umiliazioni, quelle violenze, per la prima volta dopo quattro anni, e notare la loro escalation, e dirle che, se non avesse cambiato regime, me ne sarei andato, e, alla fine, andarmene davvero. Veramente, non lo so. Quello che so è che mi servì la psicoterapia successiva, per i disturbi traumatici che mi aveva cucito addosso, per rimettere a posto i brandelli sanguinanti a cui mi aveva ridotto, per assumere maggiori consapevolezze su quanto mostruosa possa essere una persona, sulla brutalità a cui può spingersi l’essere umano, nascondendosi dietro a parole fatte di fumo e finti sorrisi cortesi, per dare finalmente un nome a ciò che era accaduto.

Io quel giorno sono stato stuprato, non di notte, per strada, in un vicolo cieco, ma in casa mia, nel mio letto, dalla mia allora compagna, quella che mi aveva regalato un anello da mettere al dito e con cui si parlava di prendere casa insieme. Quel giorno ho schivato la più grande pallottola che la vita mi abbia messo davanti e che non saprò mai, se non avessi avuto la capacità di andarmene, alla fine, se con il tempo mi avrebbe portato in ospedale. O in obitorio.

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