Questo articolo è stato scritto da Asad Dandia per Al Jaazera il 7 Novembre 2020 (qui). La traduzione è di Diletta Anselmi.
Nella foto ci sono delle persone musulmane che camminano verso la moschea di Drancy, vicino Parigi, il 23 Ottobre 2020. [Reuters/Charles Platiau]
Mentre il mondo si trova ad affrontare povertà, violenza e un collasso climatico senza precedenti, stupisce che si possa suggerire che siano solo l’Islam o lu musulmanu a essere in crisi.
Il mese scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato, in un discorso alla nazione, che “l’Islam è una religione attualmente in crisi in tutto il mondo”. Nello stesso discorso, ha presentato un programma politico volto a rafforzare la laïcité, l’iterazione peculiare del laicismo francese che regola severamente il rapporto tra religione e sfera pubblica. Da quel momento, la brutale decapitazione di un maestro di scuola, il feroce accoltellamento di due donne musulmane e i battibecchi diplomatici hanno ridestato l’attenzione mondiale riguardo l’intreccio tra Islam e laïcité.
Molto è stato scritto rispetto alla strumentalizzazione della laïcité da parte del governo francese, resa mezzo attraverso cui discriminare le soggettività musulmane, e altrettanto è stato detto sulla brutale colonizzazione – chiamata “mission civilisatrice” (missione civilizzatrice) – di milioni di popolazioni in Asia e Africa che sottende la storia del liberalismo francese. Tale violenza appartiene all’evoluzione della Francia tanto quanto la sua triade rivoluzionaria: liberté, égalité, fraternité (libertà, uguaglianza, fratellanza).
Parlando del contributo della Francia alla modernità viene, tuttavia, citato solamente quest’ultimo motto; raramente vengono tenuti di conto il ventre oscuro del liberalismo e l’ineguagliabile violenza che è stata, e continua ad essere, inflitta allu Altru storicu. Le persone musulmane, avendo sopportato il peso del colonialismo francese (e di altri colonialismi), dell’imperialismo e della violenza razzista, lo sanno però fin troppo bene. Per moltu, infatti, l’appello di Macron per un “Islam illuminista” non è nient’altro che l’ultimo sviluppo di questa lunga storia.
Quando ho letto per la prima volta le dichiarazioni di Macron circa la presunta crisi dell’Islam, mi è sorto spontaneo domandarmi: “Qual è questo ‘Islam’? Qualcunu ha fatto dei controlli?”. La verità è che il tropo dell’“Islam” come contrapposizione al liberalismo illuminista è stato discusso così tanto che non vi è alcun bisogno di affrontarlo in questa sede. Analizziamo però la dichiarazione di Macron dal punto di vista descrittivo: l’Islam è in crisi? Per rispondere a questa domanda, dovremmo cominciare col definirne i termini.
Se con “Islam” Macron fa riferimento alle minoranze musulmane presenti in Nord America e nell’Europa Occidentale allora, al contrario, possiamo dire che non ci sia stato tempo migliore per essere musulmanu. E’ infatti proprio nell’Occidente – che Macron e i suoi predecessori hanno a lungo posizionato in antitesi all’Islam – che stanno emergendo alcuni tra i dibattiti più interessanti interni alla comunità musulmana.
L’avvento dell’alfabetizzazione e delle migrazioni di massa, così come delle tecnologie dell’informazione (compresi i social media), hanno concorso nel favorire una vivace trasformazione culturale e intellettuale tra lu musulmanu del Nord globale che le generazioni precedenti non avrebbero mai potuto immaginare. Mai come oggi le persone musulmane sono state impegnate nello studio creativo, nell’interpretazione, nella contestazione e nell’incarnazione della propria tradizione.
Le donne musulmane stanno affermando la loro soggettività per rivendicare la loro agency (agentività) e per sfidare l’autorità tradizionale nell’esegesi, nell’etica, nella politica e in altri ambiti, senza dipendere da white saviours (salvatrici/salvatori bianchi/e). Lu musulmanu neru e afrodiscendenti, la cui lunga storia di resistenza nelle Americhe è ben documentata, sono in prima linea nell’organizzazione della giustizia sociale, esortando le persone a immaginare un mondo dove la polizia, le prigioni e le logiche carcerarie degli Stati nazionali possano dirsi superate.
Il crescente corpus letterario-scientifico sull’Islam in lingua inglese, che circola sia in contesti accademici che in ambiti confessionali normativi (che spesso si contaminano vicendevolmente) e ha come portavoci soggettività musulmane, testimonia ulteriormente il fiorire dell’Islam in Occidente. Si può dunque dire che l’inglese, un tempo lingua dell’Impero, rivendicata dai suoi sudditi e dalle//dai loro discendenti e ora globalizzata, sia divenuta una lingua “islamica” tanto quanto il persiano o il malese.
All’indomani dell’11 settembre, lu musulmanu – in particolare negli Stati Uniti – sono statu costrettu a posizionarsi come patriotu leali, fedeli ai miti dell’eccezionalismo americano, per evitare di essere sospettatu di fare parte di una quinta colonna. Per lungo tempo, per dimostrare questa fedeltà, lu musulmanu hanno cercato di garantirsi “un posto a tavola”.
Oggi le comunità musulmane passano meno tempo a cercare di sedersi alla tavola dei privilegiati e più tempo a costruirsi le loro proprie tavole, senza dover assecondare il potere. Stanno dando forma a una coscienza collettiva nella piena consapevolezza delle varie articolazioni assunte dalla violenza islamofobica, in gran parte responsabile della loro espropriazione globale, del loro assoggettamento, dell’iper-sorveglianza, ecc… E sì, questa coscienza prevede la messa in discussione della violenza di Stato esercitata da nazioni quali gli USA e la Francia.
Come altre tradizioni – siano esse nere, indigene, marxiste o femministe – che intersecandosi e influenzandosi a vicenda sfidano l’egemonia dell’ordine globale dominante capitalistico-razziale e suprematista bianco, la tradizione islamica è stata in grado di ritagliarsi un suo spazio a fronte della sua capacità di esprimersi criticamente e attingendo a un patrimonio storico di oltre 1400 anni che va dalle Americhe al Marocco, fino ad arrivare in Indonesia. Questa, in sintesi, più che espressione della stagnazione o dell’arretratezza, sembra una testimonianza della ricchezza e della vivacità della comunità musulmana.
Ma se con “Islam” Macron avesse fatto riferimento al mondo musulmano?
Il “mondo musulmano” (tra virgolette in quanto la categoria è di per sé problematica) è, senza ombra di dubbio, in difficoltà. Le conseguenze della Primavera Araba hanno avuto fino ad ora risultati disomogenei, persino devastanti in stati come la Siria, la Libia e lo Yemen; l’occupazione israeliana della Palestina e quella indiana del Kashmir continuano senza sosta; in Turchia e in Pakistan i movimenti nazionalisti di destra sono diventati egemonici o stanno guadagnando terreno.
In Iran, lu dissidenti continuano ad essere imprigionatu. Le monarchie del Golfo Persico mascherano la repressione dei diritti politici con una facciata di liberalizzazione sociale. L’Iraq e l’Afghanistan sono ancora coinvolti in molteplici lotte per il potere in un contesto già segnato dalle ripercussioni delle guerre eterne perpetrate dall’America. Nei Balcani si assiste alla rinascita dello stesso nativismo escludente che condusse al genocidio della popolazione bosniaca, genocidio che al momento stanno subendo lu musulmanu rohingya del Myanmar e uiguri nello Xinjiang.
Sebbene molte di queste crisi si sovrappongano, ognuna di esse è anche conseguenza di particolari contingenze storiche che richiedono analisi rigorose che esulano dall’ambito di questo saggio; un rapido sguardo ai fattori che le hanno plasmate rende però evidente quanto queste possano essere difficilmente risolte facendo ricorso a una monolitica “crisi dell’Islam”, retorica – questa – che non è altro che una copertura nata al fine di evitare di doversi confrontare con i complessi eventi storici che hanno reso il “mondo musulmano” quello che è oggi.
Ciò che si continua a trascurare è che, nonostante tutto questo, lo spirito della Primavera Araba è vivo e vegeto e si è esteso, nel corso dell’ultimo anno, a Iraq, Algeria, Sudan e Libano. Palestinesi e kashmiru continuano a perseguire le loro lotte decennali contro le democrazie apparentemente liberali per avere giustizia e per l’ottenimento di diritti. In Turchia, Pakistan e Iraq i movimenti delle donne e delle minoranze continuano a mobilitarsi contro la discriminazione, il patriarcato e la violenza di matrice statale.
Lu dissidenti del Golfo Persico si rifiutano di seguire la tradizione dei loro autocrati, opponendosi con forza alla repressione. Lu musulmanu indianu hanno mobilitato grandi manifestazioni di massa per far valere i loro diritti. Lu attivistu uiguru si rifiutano di tacere, nonostante il mondo continui a distogliere lo sguardo di fronte al loro dolore.
In relazione a quanto detto sopra, la giustizia è ormai una questione di tempo, non di eventualità. Contro ogni pronostico, le popolazioni musulmane e lu loro alleatu continuano a dimostrare che, quando il mondo rivela il suo lato peggiore, essu sono capaci di offrire il loro meglio. Dinanzi al Faraone, lu musulmanu diventano lu nuovu Mosè.
Spesso si dimentica, inoltre, il ruolo svolto dai governi liberali americani e francesi nel mantenimento dei sistemi di oppressione liberticidi a cui pretendono di opporsi. Gli Stati Uniti e la Francia sono strenui alleati di Israele, India, Egitto e degli stati arabi del Golfo Persico, che continuano a godere dell’acritico sostegno, nonché della fornitura d’armi, di americani ed europei; persino l’Iran, nemico dichiarato dell’Occidente, trae paradossalmente vantaggio dalle sanzioni paralizzanti e dalle minacce alla sovranità dell’America, che permettono ai leader iraniani di preservare la legittimità nazionale.
Ciò che dovremmo chiederci è, pertanto, che razza di liberalismo è quello in cui gli aerei da guerra e le corporazioni americane e francesi hanno la possibilità, da un lato, di attraversare i confini, mantenendone al tempo stesso ben al di fuori lu rifugiatu? In cui il progresso liberale dipende dal radicamento di regimi e politiche liberticidi? In cui ciò che un tempo fu sfruttamento coloniale da parte delle metropoli imperiali si traduce oggi in estorsioni postcoloniali, sanzioni e minacce messe in atto da istituzioni e corporazioni internazionali?
In un momento storico in cui il mondo intero sta assistendo a un radicamento senza precedenti di movimenti di estrema destra, al crollo delle istituzioni governative, alla crescente disuguaglianza e all’incombente catastrofe climatica, stupisce che lu musulman e l’Islam possano essere definitu le uniche soggettività in crisi. Piuttosto che ritenere l’Islam l’unica o la principale unità di analisi o fattore esplicativo della crisi, faremmo meglio a capire che le nostre lotte sono interconnesse.
E’ infatti il liberalismo – filosofia politica nata dall’Illuminismo e responsabile di aver messo in crisi la libertà, l’uguaglianza e l’autonomia – ad essere in crisi. Sebbene i suoi ideali non trovino origine esclusivamente in Europa, essendo presenti in numerose tradizioni extraeuropee, è il modello europeo che oggi domina il panorama globale.
Da sinistra, si ritiene che il liberalismo sia fondato sull’espropriazione violenta e razzista sullu Altru storicu e che sia responsabile della nascita del sistema di diseguaglianza globale attualmente esistente. Tra lu criticu che con più tenacia abbracciano questa visione troviamo il filosofo americano Cornel West e lo scrittore indiano Pankaj Mishra; essi ritengono che per gli stati liberali sia giunto il momento in cui “tutti i nodi vengono al pettine”, poiché la violenza che hanno esercitato sulle masse di tutto il mondo ha ora messo a nudo le loro crepe, che non possono più essere mascherate da una parvenza di uguaglianza e libertà, in un primo momento funzionali.
Se, da un lato, la sinistra può avere a cuore le libertà paventate dal liberalismo nell’intento, però, di trascenderle attraverso l’economia politica, i critici del liberalismo provenienti da destra – come gli studiosi americani Patrick Deneen e Adrian Vermeule – ne attaccano le fondamenta. Nella loro visione, infatti, il liberalismo è un’ideologia atomizzante e soffocante che slega gli esseri umani da ogni senso di comunità o di impegno sociale e collettivo. Seppure in disaccordo sulle soluzioni, sia la sinistra che la destra sanno che è giunto il momento di fare i conti col liberalismo; persino il politologo americano Francis Fukuyama, suo santo patrono, sta facendo suonare il campanello d’allarme.
Eppure, nonostante l’orologio del giorno del giudizio continui a ticchettare, i campioni del liberalismo non possono che tentare di rivendicare la formula che ha messo il mondo in ginocchio; e mentre sostengono che le libertà offerte sotto il liberalismo sono unicamente frutto del loro lavoro, non si assumono alcuna responsabilità per le politiche liberticide che si sono rese necessarie per il suo sostentamento. Attribuiscono i successi del liberalismo – libertà, uguaglianza, autonomia – esclusivamente al loro operato, imputandone i fallimenti – secoli di sfruttamento che hanno portato alla diseguaglianza globale e alla catastrofe climatica – a “tuttu noi”.
Come ha osservato l’antropologo britannico Talal Asad, “c’è una sottile ironia tra la concezione trionfale, perdurata fino alla fine della seconda guerra mondiale, della civiltà europea (o cristiana) come creatrice del mondo moderno e il fatto che adesso, di fronte a un futuro minaccioso, sia così comune sentire parlare dell’autodistruttività del genere umano, quasi come se lu contadinu e le classi lavoratrici del mondo avessero la stessa responsabilità degli industriali, dei politici, dei militari e dei produttori di armi nella creazione di questo futuro”.
Allu dannatu della Terra, parafrasando il filosofo anticoloniale Frantz Fanon, non si dà mai merito delle vittorie paventate dal liberalismo, bensì si rendono responsabili dei suoi delitti. Perché?
Macron può dormire sonni tranquilli, perché l’Islam starà bene; lu musulmanu hanno superato molte crisi in passato e sono prontu a superarne altre. Quanto a quellu di noi che si preoccupano per l’umanità tutta, è giunto il momento di meditare a fondo e insieme, di appoggiarci reciprocamente, e di ascoltarci apertamente e empaticamente nell’intento di fronteggiare le crisi globali che minacciano tanto la comunità musulmana, quanto tutte le altre.
Chissà se l’Islam potrà offrire qualche strumento attraverso cui affrontare la crisi del liberalismo.
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