Ieri mi sono arrivate le storie di una compagna, Chaima (_iamyeslah). Parlano di razzismo e islamofobia, ma non “grossomodo”: è ricapitato che umiliassero e aggredissero lei e sua mamma. Ancora.
Racconta, infatti, di averla accompagnata ad un colloquio di lavoro e la donna che avrebbe dovuto accoglierle ha aperto la porta a Chai, in maglietta e pantaloni, ma si è alterata quando ha visto sua mamma, velata. “E tu così ti presenti a lavoro?”, con il dito puntato.
«Arriviamo e le chiedono di scoprirsi un po’ di più perché hanno paura delle persone così coperte “ché non si sa mai al giorno d’oggi. E non solo: mettono a paragone me e lei chiedendole di adeguarsi [alla “identità italiana, ndr], come me, e che con questo suo modo di vestire impone la sua religione agli altri e non si fa. Ci dice anche che con le prossime elezioni probabilmente non ci sarà più spazio per il “travestimento” di mia madre.
In tutto questo chiedono a me di prendere il lavoro perché sembro normale».
A leggere e sentire queste stories mi sono partiti tutti i circuiti di mille valvole e insieme abbiamo deciso di non lasciare che questo ennesimo episodio di violenza rimanesse lì, fine a se stesso. Ne parliamo e lo analizziamo con la forza della rabbia e con la ragione dalla nostra parte, ancor più ora ché siamo sempre più vicinə al voto.
La questione dell’odio verso il velo è intramontabile, è l’entrée di una quantità incommensurabile di hate speech e hate crime.
Come pronosticavo un paio di settimane fa raccontando dell’aggressione in provincia di Firenze ai danni di una persona con il burqa, incinta e con un bambino piccolo, in vista delle elezioni il mostro del velo sta tornando in auge e scuotendo gli animi; adesso sì che ci si sente più in diritto del solito di comunicare i propri orribili sentimenti islamofobici – razzisti, arabofobi, xenofobi – come essere a una cena con rutto libero. Le elezioni sono esplicitamente una minaccia: “non ci sarà più spazio per i travestimenti”.
La stoffa è solo stoffa, ma non in Italia, e la parola “travestimento” mi ricorda molte cose. Mi ricorda il “togliti quello schifo, non è mica Carnevale” che mi sono sentito dire tante, tante volte. Incredibilmente un modo di vestire, con tutti i suoi millemila significati che non interessano ai tanti morbosi del nostro velo, è un cosplay convincente che ce l’ha fatta. Non so come dire, o forse non so trattenere un’amara ironia: le suore non sono riuscite a convertire istantaneamente i passanti con il solo potere della stoffa, ma noi sì. Noi sì, super sayan della fede, che “evangelizziamo”, con le nostre presunte incivilità e barbarie e chissà quale ordigno nascosto.
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Che il nostro vestiario corrisponda a un indottrinamento è uno spauracchio. E’ un immaginare la Mussulmania, a metà tra l’Iran e l’Afghanistan (non sapendo neanche collocarli sulla carta geografica), applicata al nostro contesto.
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Indossare abiti modesti, indossare l’hijab o semplicemente essere musulmanə non è come andare in giro a tirare l’acqua santa addosso alla gente. Non abbiamo il valore sociale e politico di un crocifisso attaccato alla parete, non siamo istituzioni né istituzionalizzabili. Esistere non vuol dire invadere; mentre strumentalizzare un simbolo religioso per raccogliere un popolo normandolo e conformandolo è proprio un abuso. Ma le persone in Italia non sono state educate a farsi i conti in tasca, altrimenti nei libri di scuola la storia coloniale e di islamofobia del nostro bel paese e della Chiesa cattolica non sarebbe ridotta a qualche trafiletto.
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Che bruttura quella di demonizzare le persone oppresse proiettando loro addosso delle colpe, dei difetti, dei vizi che culturalmente e storicamente certo non appartengono loro ma alla cosiddetta “tradizione italiana” – una tradizione composta dall’appiattimento delle diversità e dall’unificazione sovradeterminante di tanti popoli italici con lo scotch e un po’ di sputo, oggi soprattutto tramite la politica del nemico alieno e comune – che tramite le colonizzazioni e la nostra qualità di “accoglienza” subiscono. E’ una bruttura che aiuta l’italiano a immaginarsi migliore, concreto, virtuoso, senza problemi, forte, sulle spalle di qualcunə altrə.
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Come sopravvivere? “Italianizzarsi”, sbiancarsi. Ma non vai mai bene quando sei il capro espiatorio dell’ignoranza e dell’arrogante senso di inferiorità della classe privilegiata. Siamo tutti corpi politicizzati e trasformati in campi di guerra civile e territori di conquista, e se non vuoi vivere visto come un “virus” devi adattarti, conformarti il più possibile a questo artificioso ideale di “normalità”, di “italianità” – e comunque non basterà mai.
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Discutendo in chat Chaima mi dice «Mia madre si è spostata per darmi un futuro ed ha accettato e compreso il mio vivere, vestire, ragionare all’interno di questo contesto affrontando le sue perplessità» e continua «Sono in bilico tra una famiglia che mi rispetta e mi ha accettata per quello che sono e un contesto che mi vede completamente diversa dalla mia famiglia. Sia io che la mia famiglia soffriamo; io brucio dentro quando passeggio con mia madre e le stesse persone che salutano me guardano male lei. Lei è musulmana, quindi? Non guarda male nessuno. Ti dirò di più: ho visto mia madre stare male per quello che è successo e dirmi “posso capire, magari mi vedono così e possono aver paura”, riflettendosi nel vetro del finestrino di una macchina, ed è stato atroce.»
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C’è chi viene forzatə a stare in mezzo, le seconde generazioni in particolare e qualche volta i cari delle persone convertite. Chaima accompagna sua madre a lavoro come in qualsiasi ambito della vita quotidiana, traduce per lei, e lo fa anche perché viene riconosciuta come “normalizzata”, “civilizzata”, “corretta” nel suo essere non-hijabi e in un modo di pensare o di agire riconosciuto come simile a quello italiano. E’ chiaro che a qualcunə tocchi fare da scudo e subire la propria sfumatura di umiliazione, cancellazione e iper-responsabilizzazione. Stare in mezzo significa essere usatə come “cesura”, come mediatore e al contempo spartiacque tra un “noi” e un “loro”: quando vieni inglobatə e chiamatə alla normalità, ti viene indotto anche di sentirti “superiore” alle persone con cui condividi la vita, l’affetto, l’amore, talvolta la fede. Hai la responsabilità di “tenere a bada” e filtrare la tua comunità brutta e pericolosa e pur tuttavia il contentino di essere “meglio di”: è una manipolazione terribile. E’ un disagio sentito quotidianamente tra le persone messe al margine.
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Non siamo persone, veniamo trasformatə in stendardi di un “Islam di pace”, ambasciatori delle nostre famiglie, usatə come “simboli di integrazione” contro le nostre comunità e i nostri cari. Ecco come funzionano l’islamofobia e il razzismo da queste parti, con il gaslighting e il “dividi et impera”. Scrive Chaima:
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«Quando mia mamma esce con me si sente tutelata e questa cosa a me pesa tantissimo, perché sono il suo unico scudo. Mi dice “vieni tu che parli italiano? Così nessuno mi giudicherà. Magari se tu entri con me in un locale mi giudicano di meno”. Vorrei che mia madre vivesse la sua vita tranquillamente e come meglio crede. La “vecchia” mentalità dei nostri genitori, demonizzata e usata a scapito di tutti noi, viene mantenuta e rinfocolata proprio dalla marginalizzazione, perché chi è considerato diverso e viene messo all’angolo ovviamente non ha scelta che rinchiudersi in quello che conosce. E’ un gioco a cui non voglio giocare: non sono “meglio” di loro e non voglio essere trasformata in un meccanismo di questa enorme dinamica di oppressione».
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Dalla mia prospettiva il pensiero va alla mia, di mamma, che fa da scudo a me qualsiasi cosa io faccia, in qualsiasi luogo io vada, e che è costretta a giustificarmi e difendermi continuamente. A tutta la nostra situazione.
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Le nostre mamme ci dicono affettuosamente di non litigare, ognuna con un motivo diverso. Noi però siamo incazzate davvero.
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*il gaslighting è una tecnica di manipolazione volta a far dubitare l’altra persona della percezione che ha di sé e della realtà che la circonda
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@svevabasirah
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