Avete presente l’ormai trito e ritrito “l’Islam non si accorda con le nostre tradizioni”? Con una formula o con un’altra lo sentiamo dire ciclicamente per strada, in televisione e sui social e spesso in più lingue.
Quando si gioca la carta dell’incompatibilità si fa un’operazione di mistificazione della realtà veramente incredibile. Le realtà in cui viviamo sono fatte di sfumature, ma non quando c’è di mezzo la propaganda politica, che crea le avversità e gli avversari, ridipingendo poi a tinte forti le identità di questi presunti contendenti: “noi” e “loro”. Da una parte il paese occidentale in cui ci si trova, nel nostro caso ovviamente l’Italia, rappresentato ora come unito, glorioso, civile, intelligente, sano, libero, “democratico”, progredito, persino vivibile; dall’altra le persone musulmane e le persone razzializzate, retrograde e arretrate, belligeranti, chiuse, rigide, monolitiche e statiche, malate e bestiali.
In questo modo sarà facile trovare un capro espiatorio e un nemico comune che ci leghi nella discordia, specialmente alle urne, che possa sollevare le persone bianche e le persone non musulmane dal peso sugli altri dei propri privilegi e distrarle dalle disfunzioni e dalle violenze strutturali nelle nostre culture e società patriarcali e capitaliste.
Non è mia intenzione in questa sede ripetere la solita disamina circa le dinamiche di potere intrinseche ai sistemi islamofobici e razzisti, quindi direi che ci facciamo bastare questo breve recap, che ci serve a visualizzare l’artifizio della “incompatibilità” partorito dalla nostra storia di sovradeterminazione sistemica.
Tramite la colonizzazione l’Occidente è riuscito a ficcare il capitalismo e il proprio patriarcato nelle viscere di moltissimi popoli, importando canoni estetici, un forte colorismo, la propria omolesbobitransfobia, gli abusi spirituali del cattolicesimo storico, ritmi industriali e una mentalità capitalista e così, via dicendo fino a consumarci. Tuttavia non è riuscito a cancellare completamente la storia e l’identità dei popoli e delle loro religioni, sebbene abbia costretto intere culture a trasformarsi.
Ci sono degli elementi di grosso fastidio per il mondo occidentale appartenenti in special modo alle persone musulmane e all’Islam che viene da loro praticato, elementi che si vuol concepire come “in contrasto” alle tradizioni ma che, in realtà, sono al massimo una forma di involontario call out e reminder alle società “bianche” di non essere per niente perfette.
Riporterò alcuni degli argomenti che altrə attivistə e soggettività hanno sollevato in Italia e che credo siano ormai quasi “scontati” all’estero. Il fatto che siano 5 è del tutto simbolico, perché il discorso può essere arricchito all’infinito.
Sperando di offrire alcuni strumenti e certi spunti di riflessione, cercherò di rendere il mio discorso più reale tramite l’applicazione di ogni argomento a quella che è, bene o male, la complessiva realtà italiana – preoccupata del rischio di cadere nella generalizzazione nel contesto di un paese così variegato, e sarebbe praticamente un paradosso; sarò molto felice di leggere le testimonianze che renderanno questo scritto sicuramente più specifico, pratico e meno astratto.
- La cultura dell’alcool
Quella che dallə anglofonə viene detta “alcohol culture” o “drinking culture”. Quando parliamo di cultura dell’alcol ci riferiamo agli usi e ai costumi relativi al consumo di alcolici nelle varie parti del globo.
Un immaginario comune ci suggerisce che lə musulmanə non bevano, e anche se questo non è del tutto vero porta sicuramente dei riferimenti dalla realtà. L’alcool non è per moltə solo un’abitudine, ma è qualcosa di considerato come il comune denominatore della socializzazione e della civilizzazione: insomma, se non ti bevi un calice o una birra al baretto sei stranə. Anche un po’ rincoglionitə.
Qualche anno fa abbiamo tradotto un articolo del 2016 di Nashwa Khan intitolato “Cinque dolorose microaggressioni che ho subito in quanto musulmana negli ambienti femministi”, e l’autrice dedica un paragrafo proprio alla difficoltà e allo stigma circa il suo essere astemia – oltretutto per motivi religiosi.
«[…] Il momento in cui mi sento a disagio, invece, è quando dico “no, grazie” – che è una risposta valida quando ti viene offerto da bere – e vengo contestata» e continua qualche riga più avanti «[…] mi becco le tipiche supposizioni del tipo che non deve piacermi l’alcool o che ci deve essere una ragione se non bevo. In effetti, non bevo principalmente per le credenze che derivano dalla mia fede».
Riportando il discorso al nostro stivale, beh direi che ovunque il discorso dell’alcool sia centrale e che anche alle persone non musulmane e astemie sia già chiaro un “pezzo” dello stigma sulle persone musulmane che non bevono. Se non bevi sei unə sfigatə, unə che non si sa godere la vita né la movida, il “vero divertimento” cittadino, una persona scialba e noiosa e ci sarà sempre qualcunə che insisterà fino allo spasimo perché tu beva un bel prosecco al posto del tuo pacifico succo all’ananas. Chi non beve alcool è vistə un po’ come un alieno, unə che quasi non meriterebbe posto neanche ai tipici pranzi familiari.
Intrecciamoci ora l’islamofobia. In Italia, dal nord al sud, l’alcool e il maiale sono i piatti forti: e tu che probabilmente non consumi né il primo né il secondo? Chiaramente non ti stai adeguando alle tradizioni locali, la proposta di socializzazione deve essere sempre la stessa e non c’è spazio per la devianza. Anche perché sei musulmanə, e questo è grave. È grave perché questo ti rende agli occhi di tuttə unə importatricə di rigidità e di una diversità insopportabile.
Noi persone musulmane, come dicevo, spesso non beviamo per via dei dettami del Corano. La motivazione che spesso viene addotta risiede nella tendenza che lə musulmanə dovrebbe coltivare verso la moderazione. L’ebbrezza stordisce e non ci aiuta ad essere presenti nel qui e ora – ad assolvere ai nostri compiti, goderci e proteggere il Creato e adorare Dio.
C’è anche chi, teologicamente parlando, comunque beve ma non fino all’ubriacatura. Alcune narrazioni ci riportano infatti che il divieto sia stato rivelato dopo alcune complicazioni che i compagni del Profeta hanno incontrato con l’alcool. C’è chi ha tagliato la testa di un cavallo in preda ai fumi dell’alcool e chi semplicemente stava guidando la preghiera ma non si reggeva neanche in piedi (le narrazioni sono veramente tante).
C’è anche chi beve e basta, senza meno!, basti aprire un qualsiasi libro di questi secoli di poesie di persone musulmane per accorgerci che lo abbiamo sempre fatto e ne abbiamo anche molto goduto. Comunque, generalmente bere (o a limite bere molto) non è comune per moltə musulmanə.
Lo stereotipo che si ha del musulmano, visualizzato come l’ “invasore”, va a fondersi del tutto con l’antipatia generale verso chi non beve. Non solo “rompi il ritmo”, ma sei veramente inintegrabile. Per statuto. È quel Dio lì che te lo chiede, no?
Ed eccoti, ché non ti adegui, ecco la famosa “incompatibilità”.
Per quanto tracciare un confine tra delle persone e delle altre per la differenza del consumo di alcool sia già di per sé ridicolo, c’è da chiedersi quanto le persone white che compartecipano alla cultura dell’alcol si sentano implicitamente “bacchettate” dai principi islamici di moderazione delle persone musulmane.
L’alcool ha finito per normare la socialità, penalizzando chi non ne usufruisce e chiunque non riesca e/o non voglia vivere un certo tipo di mondanità – magari per la neurodivergenza, per fare un esempio. Quando una persona musulmana, quindi “diversa”, non beve fa presente con la sua sola esistenza che ci siano molti altri modi di legare e di divertirsi, che non riguardino per forza un certo tipo di serate o un certo tipo di incontri. Sottolinea che non vi sia motivo dietro questa sorta di obbligo morale di prendersi una sbronza per fare serata. E questo può risultare fastidioso.
In più, l’abuso di alcool è diventato un problema in moltissimi contesti. Chi ha subito un certo tipo di violenza domestica lo sa, come anche chi ha un passato di dipendenza da alcool. L’alcool non è legato solo alla goliardia e alla convivialità, purtroppo è anche un issue per quanto riguarda la salute mentale delle persone. In Occidente – ma anche in molte altre zone del mondo – ho pensato al Giappone leggendo della richiesta del governo ai giovani di consumare più sakè! – moltissime persone bevono moltissimo per integrarsi, per non pensare, per mascherare meglio la propria neurodivergenza, per attutire i sintomi di cose come il disturbo da stress post traumatico, altri cosiddetti disturbi e stress, disagi personali e sociali, per trovare una scappatoia ai ritmi incalzanti e distruttivi del lavoro nel capitalismo, dello studio e delle famiglie, nel silenzio della più totale normalizzazione e nella mancanza di atti di cura.
Ci siamo sistematicamente abituatə a utilizzare l’alcool come un cerotto sulle nostre beghe e come alternativa alla mancanza di strumenti e esperienze di scambio e di cura delle nostre (non) comunità. È facile che in un contesto islamofobo il non bere di unə musulmanə suoni come un call out non tanto all’alcool in sé, bensì a tutte le problematiche della alcool culture.
Un suggerimento implicito che, piuttosto, potremmo cogliere dai suddetti principi di moderazione che moltə musulmanə seguono è quello di rimanere “presenti” (da soli o insieme), qualora sia possibile, qualora si desideri – previe valide motivazioni! – e qualora si vogliano acquisire gli strumenti per tentare forme di socialità alternativa e inclusiva – nonché uno spirito di comunità che oggi, in un Occidente “ferocemente individualista”, decisamente, manca.
- La preghiera quotidiana
La preghiera è una delle tante cose giudicate bizzarre – se va bene – complessivamente in Italia e nel resto del mondo non musulmano.
Sarà forse per come viene eseguita? Visivamente è certo d’impatto, specialmente quando c’è qualcuno che la guida recitandone alcuni punti ad alta voce. È un insieme di invocazioni ed è un susseguirsi di prosternazioni e inchini.
Laddove è possibile si viene avvisatə dal muezzin, una voce intensa che viene da un minareto, ma da queste parti ci accontentiamo dei muezzin gracchianti delle app di preghiera sul telefono. Non so quantə di noi hanno turbato la quiete di autobus e metrò in questa maniera!
La preghiera è soprattutto un atto di devozione, amore e adorazione verso Dio. Moltə musulmani performano questa disciplina spirituale anche per nutrire quello che è il legame tra Dio e il credente ben sancito dalla testimonianza di fede (shahada, una frase con cui affermiamo di riconoscere Dio e il Profeta), e la preghiera diventa spesso un rifugio. Un momento di raccoglimento, che si può vivere in molti modi e che verte sul decentramento da sé come sul sé in connessione col divino.
Dopo aver pregato possiamo anche fare dua’a, che è un momento di invocazione e di richieste, e/o sgranare il rosario islamico (tasbih). Forse la pratica della preghiera può essere raccontata come un momento di meditazione, cosa non comune in una società patriarcale divenuta così “scientifica” e industrializzata.
C’è di più. Chi prega, può assolvere alle 5 preghiere quotidiane prescritte, che occupano alcuni momenti dell’alba, della mattina, del pomeriggio, del tramonto e della sera. La persona musulmana sunnita di solito prega 5 volte e la persona musulmana sciita può scegliere di pregare 3 volte, combinando le preghiere a coppie (duhur e asr nel pomeriggio e maghrib e isha la sera). Una preghiera ha una durata compresa tra i 5 e i 10 minuti e ci è prescritto quando possibile di fare un rituale di purificazione antecedente, di solito l’abluzione (wudu o in certi casi l’abluzione completa, la doccia diciamo, ghusl) e in mancanza d’acqua il gesto semplice di toccare la terra o un sasso e poi la propria fronte e il viso (tayammum). Siamo anche incoraggiatə a non avere fretta prima, durante e dopo.
Il concetto di prendersi del tempo per permettersi di rifocalizzarsi sul nostro presente, e in questo caso anche sul nostro mondo spirituale e interiore, non è molto dissimile dalla mindfulness. La mindfulness è una pratica di riduzione dello stress creata dal biologo e scrittore Jon Kabat-Zinn in America negli anni ’70, è ispirata al buddhismo, allo zen e allo yoga ed è stata adottata da molti percorsi di psicoterapia. È mirata allo “smettere di procedere col pilota automatico”, al raggiungimento della consapevolezza e della piena coscienza di sé nonostante la frenesia delle nostre vite.
Molti studi dimostrano come questi momenti di stop e riflessione giovino alla salute di un sacco di gente. Nel momento in cui la preghiera musulmana è libera e liberata dall’impatto degli abusi spirituali dovute alle nostre “parrocchie” e all’islamofobia, può essere effettivamente addirittura un toccasana e un modo per interrompere e problematizzare il ciclo infinito di uso-consumo-produzione.
Tutto questo non aggrada al capitalismo. Sebbene diverse organizzazioni all’estero, dagli aeroporti alle aziende, si siano adoperate per permettere alle persone musulmane di pregare, in certe situazioni e in particolare in paesi come l’Italia il fatto che una persona si prenda del tempo per assentarsi dal lavoro o dallo studio per dedicarsi a sé (qualsiasi cosa voglia dire) è inconcepibile, tanto più se si fa per il tanto demonizzato Islam.
Decidere di staccare da quello che stiamo facendo per dedicarci a noi, singoli o gruppi di persone, rema contro i ritmi di produzione e la spietata morale del lavoro in Occidente, per cui non puoi azzardarti a rallentare – significherebbe che stai invecchiando e nel mondo perfetto dello shopping non s’invecchia e non ci si ammala! – né puoi permetterti di apparire pigrə e svogliatə. Senza contare che ogni falla del fatturato dell’azienda per cui lavori è imputabile a te, soprattutto se sei targettizzatə perché musulmanə.
Purtroppo anche noi veniamo vessatə e convintə della normalità di questo sistema di vita, in più a molte persone razzializzate e immigrate toccano i lavori più pesanti e poco tutelati. Lo stress, la stanchezza e il giudizio capitalista gravano sulle spalle di molte persone, impedendo loro anche solo di pensare a prendersi del tempo per pregare.
In una società come la nostra si vive operando a ciclo continuo e tutto ciò che sa di “riposante” o di “sabbatico” è un vezzo – un vezzo che semmai si permettono ai vertici, che si godono quelli che “ce l’hanno fatta”.
Così la preghiera musulmana diventa un atto anticapitalista a tutto tondo e può essere rivendicato come un atto di resistenza ad un sistema logorante e manipolatorio. Ebbene sì: l’ha voluto Dio!
Come accennavo, spesso preghiamo insieme. Fare esperienze insieme crea comunità: questo è un buco del matrix di una società individualista, in cui ognuno è un self-made man e in cui i nuclei familiari divisi e isolati hanno sostituito una qualsiasi forma di scambio comunitario e di conoscenza reciproca (ma su questo ci torniamo dopo).
Queste consuetudini ci ricordano che abbiamo bisogno di lentezza e di fare esperienze collettive; abbiamo bisogno di lavorare per vivere e non vivere per lavorare.
- La questione della castità
Mettiamola così: in meno di un secolo l’Italia, e tantissime altre parti dell’Occidente, ha sbarellato secoli di tabù patriarcali sul sesso e le relazioni… entrando nel mondo di Tinder.
Abbiamo certamente ancora enormi problemi di sessuofobia con tantissime aggravanti, come la misoginia, lo stigma contro lə sex worker, l’omolesbobitransfobia, l’afobia, il razzismo e l’islamofobia con annesse feticizzazioni e chi più ne ha più ne metta. La liberazione dei corpi non è mai finita e abbiamo ancora una lunga, lunga strada da percorrere assieme.
La lotta che abbiamo fatto e stiamo tuttora facendo quantomeno ha dato i suoi frutti, abbiamo effettivamente fatto dei bei progressi nella liberazione sessuale e nell’intendersi delle relazioni. Le persone fanno sesso prima del matrimonio affrontando o avendo superato il bigottismo e gli abusi spirituali che hanno caratterizzato la nostra beneamata tradizione cattolica, si parla (qui pochissimo) di diritti riproduttivi, di salute e di educazione sessuale (altro tasto scandalosamente dolente in Italia), ci si sposa e si divorzia, almeno in teoria e si discute di non monogamie. È innegabile che ci siano stati dei cambiamenti importanti in questi ultimi decenni, qui e là, anche se attualmente tutto sembra bloccato o retrocedere.
Tuttavia potremmo rilevare due questioni particolarmente preoccupanti in una società ancora attaccata alle proprie radici sessuofobiche e allo stesso tempo convinta di aver raggiunto la liberazione sessuale. La prima che voglio evidenziare è l’allonormatività, ovvero l’affermazione impositiva per cui essere allosessuale – ovvero essere in grado di provare attrazione sessuale – sia la normalità, sia giusto, sia sano e sintomi di buona salute e sia indispensabile nell’esperienza dell’essere umano; non è finita: una società allonormativa spinge a fare sesso e privilegia chi prova attrazione sessuale il più frequentemente possibile, specialmente se la mette in pratica.
Si considera comunemente che chi fa poco sesso, ancor peggio chi non lo desidera, sia anormale, che abbia a prescindere delle disfunzioni da curare e che sia sostanzialmente un poveretto o una frigida pallosa. Questa considerazione si estende anche alle relazioni, perché le persone intorno a noi si aspettano che avremo delle relazioni prima o poi, specialmente se siamo socializzatə come donne, delle relazioni romantiche monogame che completino la nostra vita – il tutto nell’ottica di un tremendo romanticismo tossico.
Le pretese esterne ingabbiano moltissime persone in rapporti non profondamente desiderati e le incoraggiano a sopprimere i propri bisogni, la propria identità, i propri orientamenti sessuali e relazionali. Di sicuro la cosa che meno siamo incoraggiatə a fare è essere noi stessə, e nessunə ci insegna che cosa vuol dire costruire una comunicazione sana con noi stessə e con lə altrə, con il risultato di una grande insoddisfazione estesa.
A tutto questo si va ad aggiungere la seconda questione, quel che Zygmunt Bauman definisce “consumismo dei sentimenti”. Ora, Bauman è stato un sociologo eccezionale e tuttavia non sembrava avere la consapevolezza o quantomeno le parole che abbiamo oggi per definire i meccanismi culturali e sociali patriarcali che chiamiamo “allonormativi” o “mononormativi”, ad esempio; comunque è riuscito a individuare quella che è stata l’influenza del capitalismo nelle relazioni, approfondendo la fragilità dei sentimenti con “l’amore liquido” in una “società liquida”.
Osserva Bauman che «le possibilità romantiche si susseguono a ritmo crescente e in quantità sempre copiosa facendo a gara nel superarsi a vicenda e nel lanciare promesse di essere più soddisfacenti e appaganti» ed anche scrive «in una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazione immediata, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicurazione contro tutti i rischi e garanzie del tipo “soddisfatto o rimborsato”, quella di imparare ad amare è la promessa (falsa, ingannevole, ma che si spera ardentemente essere vera) di rendere l’esperienza dell’amore simile ad altre merci, che attira e seduce sbandierando tutte queste qualità e promettendo soddisfazioni immediate e risultati senza sforzi», Amore liquido, 2003,
[ho sperduto il libro e ho copia incollato da qui!]
Quel che viene sottolineata è la nostra tendenza a consumare le interazioni con lə altrə come fossimo al supermercato. Bauman ha parlato a lungo di amore, noi nel mondo delle app di incontri possiamo sicuramente applicare la stessa dinamica di ragionamento a quelli che sono anche i rapporti sessuali occasionali.
In un’intervista del 2018 a La Repubblica dice con parole più spicce «Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l’opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento». Non abbiamo quindi la possibilità di coltivare il desiderio, qualsiasi esso sia, e non ci vengono forniti gli strumenti per impostare un qualsiasi rapporto nel modo più sano per le persone coinvolte; a volte penso che sono forse rarità, ai margini, come le persone valide che in Italia si espongono per parlare, ad esempio, dell’etica del BDSM a ricordarci cosucce come che prima di un rapporto sessuale si debba fare un colloquio per cui capire e imparare come fare rispettare i propri bisogni, mettere i propri boundaries, e accogliere l’altra persona. In Italia sono lə attivistə delle reti queer e femministe a fare la differenza.
Insomma, quel che siamo promossə a fare è fare sesso, farlo il più possibile e bypassare qualsiasi momento di intesa, di riflessione e di apprendimento.
Veniamo ora quindi alle persone musulmane. Ancora una volta c’è da dire che le persone musulmane nella storia e attualmente non sono per definizione caste, pure e vergini, forse potremmo addirittura dire che questa nuova wave di “verginità virtuosa” sia forse figlia dello stesso cattolicesimo bigotto ed evangelizzante che continua a influenzarci da dietro le quinte – anche teologicamente parlando – e per completezza, possiamo dire che abbiamo le nostre roba da risolverci in quanto a relazioni e sessualità.
Tuttavia sappiamo che moltə musulmanə intrattengono relazioni sessuali all’interno di quella che potremmo dire una cornice legale. In una buona parte del nostro mondo si tende ad aspettare il matrimonio, il celibato non è infinito né sacro ed appunto l’unione matrimoniale ci fa accedere ad una vita sessuale certo non direzionata verso la sola e unica procreazione. Quel che ancora abbiamo tuttə presente è che il sesso sia un dono di Dio e non semplicemente un mezzo per la riproduzione. Sempre di più si sta ri-diffondendo la conoscenza dell’etica sessuale proveniente in buona parte da degli hadith (narrazioni sul Profeta e la comunità musulmana purtroppo incerte) tutt’altro che casti, in cui si predicano il piacere femminile e il piacere di coppia.
Gli sciiti in particolare hanno mantenuto quella che è l’usanza del matrimonio temporaneo (mut’a) ovvero un contratto firmato dai due amanti che sancisce di comune accordo una loro unione matrimoniale, che può durare da un’ora a 99 anni. Nella società dell’Arabia Saudita di 1400 anni fa questo era un ottimo escamotage per proteggere i diritti della donna e soprattutto quelli della prole, in quella che era l’assenza di metodi contraccettivi avanzati, test del DNA e aborti sicuri; bisogna però anche dire che, in generale, con l’avvento dell’Islam sposarsi e divorziare in sicurezza diventarono pratiche più disinvolte di quanto si pensa. Non che avere la possibilità di avere una relazione e fare sesso fosse troppo complicato.
L’attitudine verso il sesso e le relazioni che hanno molte persone musulmane spaesa l’Occidente, abituato a questo ritmo industriale dell’uso del consumo delle relazioni, con tutte le contraddizioni che ogni società del mondo continua a covare. Se già la persona che non fa sesso è considerata strana e aliena, dall’alto della bianca ignoranza rispetto alla complessità della nostra storia e delle nostre teologie, la persona musulmana è considerata retrograda e non al passo con la civiltà. Ma com’è la civiltà di cui ci si vanta tanto? ed è una domanda retorica.
La castità o l’attenzione a 360 gradi per il rapporto o la relazione che ci si accinge a vivere e curare insieme non costituiscono una “tradizione” italiana o occidentale.
Il capitalismo ci ha inculcato che la vera modernità e la vera civilizzazione consistono nel passare da un rapporto ad un altro senza stare a chiederci troppo il perché. La velocità del nostro sistema ci ha inibitə dall’imparare tutto quello che è importante per noi in quanto non capitalizzabile – la comunicazione tra partner, la responsabilità, l’educazione al consenso, l’esplorazione dell’intimità, l’accettazione e la conoscenza della sessualità eccetera eccetera.
Forse chi non è musulmanə potrebbe prendere spunto dalle pratiche delle persone musulmane intorno a sé o persino dalla teologia e dalla storia delle comunità musulmane. Non siamo perfettə, affatto e soprattutto non siamo tuttə uguali; tuttavia dalle nostre divergenze c’è molto da recuperare e da integrare con le consapevolezze (anche queer, femministe occidentali) rispetto a questi temi.
- Il rifiuto dei modelli estetici occidentali
Il primo target della violenza islamofobica in Occidente sono le donne (o meglio, mi ripeto, le persone socializzate come donne), in particolar modo le donne che vestono in modo modesto, con il velo – e magari con abiti tradizionali di tutt’altra zona del mondo.
Come spiegavo un po’ di tempo fa, si tende ad associare per non conoscenza o tendenziosamente il velo al velo iraniano o al burqa afgano, approccio gemello di quello applicato in generale all’Islam e alle persone musulmane tutte: si tende tramite la propaganda, la disinformazione e l’orientalismo creare un’unica immagine per una realtà vastissima, identificare in pochi esempi (i peggiori possibili, come il terrorismo, o mitizzati) centinaia e centinaia di comunità musulmane e vedere la religione islamica come un monolite. In Italia forse si è riusciti a creare l’immagine più confusionaria possibile.
Com’è quindi codificata la donna musulmana, nello specifico quella velata (hijabi)? Come la compagna di un cosiddetto “jihadista” o una terrorista lei stessa, come sottomessa a una religione brutale misogina e al marito o alla famiglia, stupida e masochista. E se hijabi è pure esibizionista, come se lo hijab fosse una dichiarazione di guerra: “con questa stoffa dichiaro di non volermi adeguare e di non voler essere occidentale come voi”, peraltro una sottintesa dichiarazione pacifica che solo all’ego fragile dell’Occidente può sembrare un atto belligerante.
A molte femministe il velo è sembrato la minaccia al proprio lavoro per la liberazione dei corpi. Della serie “abbiamo lottato così tanto per il topless e mo’ arrivano queste?”. L’esistenza e la presenza dellə donnə musulmanə e delle donnə musulmanə velatə ha costretto lə femministə occidentali a notare e fare i conti col proprio suprematismo interiorizzato, coi propri privilegi, senza contare la storia coloniale dei propri paesi (a cui il velo è stato spesso atto di resistenza). Quel che piano piano si sta riuscendo a capire è che interessarsi alle differenze e lottare fianco a fianco allə donnə musulmanə, poi, può portare anche ottimi spunti.
Hanna Yusuf (che non c’è più, Dio l’accolga), giornalista somala cresciuta in Olanda e poi in Inghilterra, molto attenta ai diritti delle cosiddette minoranze, nel 2015 raccontò con il servizio “Il mio velo è femminista” per Internazionale che cosa può voler dire per unə hijabi indossare il velo in aperto contrasto ai canoni estetici occidentali e all’insistente manipolazione del capitalismo. Riportai la trascrizione del testo tradotto in un articolo che non ho mai fatto uscire ed ecco qua qualche scorcio:
«Il mio hijab non ha niente a che vedere con l’oppressione. E’ una dichiarazione femminista. Ciao, io indosso un hijab, anche se probabilmente l’avete già notato. E’ solo una sciarpa che alcune donne indossano per coprire parte del loro corpo, anche se non si direbbe, visto il putiferio che scatena. Per molti uomini e per molte donne senza hijab, questo pezzo di stoffa è un simbolo di oppressione. Ma in un mondo dove il valore della donna è ridotto spesso alla sua sensualità, rifiutare questo concetto non è forse un gesto di liberazione? Coprendoci, rifiutiamo l’idea che una donna debba essere sexy ma non volgare, magra come un grissino ma con le curve al posto giusto, giovanile ma non rifatta. Questo mercato spinge le donne a provare l’impossibile. Ma allora perché l’hijab provoca ancora tutto questo clamore? Non perché rappresenta una minaccia ai valori progressisti, ma perché va contro gli imperativi commerciali che sostengono la cultura del consumo. Ora vi spiego. Il capitalismo tratta la donna sia come prodotto che come consumatore. Guardate le pubblicità delle macchine, della birra e dei videogiochi. Le donne con l’hijab non rientrano in questo modello. La loro presunta modestia contrasta con le immagini più commerciali delle donne, come modelle, sex symbol e malate dello shopping. Criticando la definizione dell’hijab come un simbolo di oppressione non voglio assolutamente negare che in alcune aree del mondo le donne siano costrette a indossarlo, a volte con metodi violenti. Qualcuno sostiene che coprirsi non può essere un gesto di liberazione, come in fondo non lo è girare seminude. La liberazione, però, è nella scelta […]» e continua «[…] Molti sostengono che l’hijab controlli la sessualità. Ma non vi siete accorti che la pubblicità e le riviste femminili ci spiegano come apparire, sorridere e respirare in modo da eccitare gli uomini? E voi pensate davvero che una sciarpa sia uno strumento di controllo della sessualità?» e «In realtà per molte donne l’hijab è uno strumento per rivendicare e avere pieno controllo del proprio corpo, e questo dà fastidio a molte persone. Ma non statemi a sentire, sono solo una stupida musulmana che non sa pensare con la sua testa!»
[la traduzione verso l’italiano è di Internazionale]

No, le persone con hijab non sono desiderabili (anche se vengono feticizzate!), non vogliono sedurre, bensì occupano visibilmente lo spazio pubblico senza accontentare il palato del mercato e degli uomini, suscitando una gran irritazione in questi ultimi. La protesta chiaramente si allarga alle persone non velate e a tutte quelle persone che non rivendicano solo l’Islam, ma anche le proprie origini extra-europee e extra-occidentali. I veli, i vestiti e la questione delle taglie specchiano i problemi dell’Occidente.
Riporto il celeberrimo esempio di Fatema Mernissi, formidabile scrittrice e sociologa marocchina, che nell’ultimo capitolo del suo libro L’Harem e l’Occidente (2000) racconta della “schiavitù della taglia 42”.
«Fu in un grande magazzino americano, nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una gonna di cotone […] che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regime estremisti quali l’Iran, l’Afghanistan, o l’Arabia Saudita». Mernissi racconta infatti della conversazione surreale con la commessa, che «aggiunse un giudizio condiscendente, che suonò per me come la fatwa di un imam. Non lasciava spazio a discussioni: “Lei è troppo grossa!”, mi disse. “Troppo grossa rispetto a cosa?”, le chiesi guardandola attentamente, perché mi accorsi di trovarmi di fronte a un serio divario culturale. “Rispetto alla taglia 42!”, mi giunse la risposta della commessa. La sua voce aveva il taglio netto tipico di coloro che danno manforte alla legge religiosa. “le taglie 40 e 42 sono la norma”, continuò, incoraggiata dal mio sguardo smarrito».
All’interlocutrice appare incredibile: nel suo Marocco non si cerca una taglia, invece si va dal sarto o dalla sarta a farsi fare un vestito su misura e la grandezza la si capisce sul momento.
Mernissi si accorge che anche la commessa ha una cinquantina d’anni, come lei, ma che come altre donne americane cerca di impedirsi di invecchiare rimanendo nei limiti della taglia 40 e con l’ausilio di tanto make up – «la violenza incarnata nella frontiera occidentale è meno visibile perché l’invecchiamento non è attaccato direttamente, ma è mascherato da scelta estetica». Si rivela quella che è la pressione sociale sulle donne che devono rimanere desiderabili e allo stesso più piccole possibile, poiché più minute e composte si è meno si occupa spazio. La taglia, come il velo nei paesi sopracitati, è quel che annulla la presenza della donna nello spazio pubblico. È anche simbolo di un sistema che impedisce alle donne di diventare mature in santa pace.
Ancora una volta il patriarcato e il capitalismo nostrani hanno cercato di a farci distogliere l’attenzione dalle brutture che ci hanno scaricato sulle spalle. Ecco, ripartire dalla prospettiva delle persone musulmane e delle persone immigrate e razzializzate, con intenti più o meno politicizzati e comunque politici – dato che il personale è politico -, può certamente far riflettere sulle nostre condizioni, sulle nostre priorità e bisogni indotti. Forse certi nostri indumenti e le nostre taglie uniche, per quanto diano fastidio ai nostri contesti capitalisti e misogini, hanno i loro perché. Credo che anche questo dimostri che la voce e l’esperienza delle persone più marginalizzate possa mostrarci la realtà delle nostre società in maniera davvero profonda e che la marginalità possa davvero essere un luogo di decostruzione e ricostruzione.
- Le comunità indipendenti e l’auto-mutuo aiuto
Un’altra cosa di cui abbiamo assolutamente perduto il senso, progressivamente nei secoli con un’accelerazione incredibile negli ultimi decenni, è la comunità.
Mia madre mi racconta spesso come nella periferia della mia città, Livorno, in cui abitava da ragazzina negli anni ’60 e ’70 ci fosse un bel senso di vicinanza e di accoglienza tra le persone nei quartieri, nei rioni e nei condomini. Ogni tanto rievoca gli episodi quotidiani di convivialità per le scale, agli “usci”, dove le persone sistemavano la sedia davanti a casa – di solito aperta – per parlarsi e conoscersi. Se penso invece al mio attuale vicinato divento sgomento.
Innanzitutto l’appiattimento culturale dall’unificazione (colonialista e coercitiva) dell’Italia in poi ci ha sicuramente tolto le identità e le pratiche che rendevano reali queste identità culturali e che ci univano, poi c’è da dire che i soliti noti (il patriarcato e il capitalismo) ci hanno veramente molto rinchiuso in noi stessə.
I media ci inculcano il timore di uscire dalle proprie sicure quattro mura, la sicurezza securitaria ci tormenta con continue proposte di telecamere in ogni dove e lo spauracchio dell’immigrato e del musulmano ha acuito la diffidenza tra i vicini di casa. Ci siamo convintə di dover essere tuttə conformi, tuttə decorosi e che ognunə di noi debba farsi i cazzi propri.
In certe situazioni mi piace sempre reclamare il Manifesto SCUM (1967) di Valerie Solanas, artista e attivista statunitense, se non altro per l’incisività della sua analisi del patriarcato – che invero si concentra sul “maschio”.
«La nostra società non è una comunità ma un mero agglomerato di unità familiari isolate», e spiega «l’isolamento gli permette [al maschio, ndr] di coltivare la pretesa di essere un individuo diventando un feroce individualista, un solitario, una persona che equipara l’assenza di cooperazione e la solitudine all’individualità. Tuttavia il maschio ha anche un altro motivo per isolarsi: ogni uomo è un’isola. Intrappolato in se stesso, emotivamente isolato, incapace di comunicare, il maschio ha orrore della civiltà, della gente, delle città, delle situazioni che richiedono la capacità di comprendere le persone e rapportarsi a loro».
Ed è vero: ad oggi ognunə vuole essere un self-made man – alla Robinson Crusoe, incluso il razzismo -, a costo di isolarsi, e l’indipendenza, anche qualora sia la risposta ad un trauma!, è valorizzata oltremodo e privilegiata rispetto alla coesione, all’impegno, agli atti di cura e alla cooperazione con altre persone.
In contrapposizione a questo sistema ci sono le comunità spirituali e religiose, le comunità musulmane, le comunità di persone razzializzate e le comunità di diaspora, che proprio per la loro unità vengono addirittura spesso derise.
La nostra compagna Fatima nel bellissimo articolo “La proposta dello ‘hijab ban’ francese è islamofoba: parola di una ragazza hijabi in Francia” ci aiuta proprio a capire come in Francia le persone musulmane, arabe solitamente, vengano rinchiuse nelle banlieue grazie al razzismo, all’islamofobia e alle conseguenti scarse prospettive di lavoro, grazie al fatto che non si possa mandare i figli a scuola fuori dalla propria zona di residenza e così via. Proprio come in una relazione violenta, i francesi congegnano e alimentano una situazione di disagio per coloro che poi additano.
«Appena arrivata mi è stato detto che io sono una di quelle che fanno “comunitarismo”. Sì, una di quelle musulmane che nell’ottica dei francesi non vogliono “civilizzarsi” e nutrono solo sentimenti di odio verso i francesi. Pensano che nessuno di noi abbia intenzione di uscire dal ghetto, ma che anzi ci piaccia, che sia nelle nostre corde e che sia una nostra scelta. Una scelta “escludente” nei confronti dei francesi, come fossero loro le vittime della situazione».
Anche nell’emergenza terrorismo di qualche anno fa le persone sono state lasciate sole ed è toccato alle sole comunità prendersi tutta la responsabilità, con i pochi strumenti a loro disposizione, di contenere in ogni modo qualsiasi altra eventualità di questo tipo.
«Le moschee e le comunità musulmane delle banlieue si sono organizzate autonomamente per impedire a questi ragazzi di partire e per non lasciare che subissero il lavaggio del cervello. Ogni venerdì i genitori portavano i figli in moschea a conoscere l’Islam per evitare che fossero convinti da qualche sconosciuto a andare incontro all’ignoto, anche banalmente con la promessa di una montagna di soldi. Le madri hanno cominciato a denunciare i figli quando si accorgevano di qualche cambiamento strano, perché “meglio averlo vivo in carcere che morto chissà dove”. Le nostre comunità – specialmente dal 2015 in poi – si sono dovute organizzare completamente da sole per frenare questo fenomeno e per convincerci che qualcosa cambierà, ma non così; per convincerci a stringere i denti. Ce l’hanno fatta, in qualche modo e nella maggior parte dei casi.
Se questo è comunitarismo, probabilmente siamo colpevoli».
Sebbene le comunità religiose e/o di diaspora siano veramente tantissime nel mondo occidentale e siano completamente diverse l’una dall’altra, quello che spesse volte dimostrano è di saper validare e nutrire delle connessioni. L’esistenza di comunità indipendenti e autonome, con tutti i loro difetti similmente ad ogni altra rete umana e società, che praticano l’auto-mutuo aiuto non piace ai governi e ai mercati che hanno deciso che il dividi et impera fosse un’ottima soluzione per accaparrarsi consensi e per tener sotto controllo le popolazioni.
Bisogna anche dire che molte di queste comunità siano appunto vicine tra di loro per via di un collante, l’Islam. «La diversità delle culture, delle tradizioni e dei percorsi storici intrinseca al modo in cui le persone comprendono il significato dell’Islam è la bellezza nascosta che mantiene vivo l’Islam», scrive la teologa femminista amina wadud. Certo, non tutte le persone immigrate o razzializzate sono musulmane e ci sono anche delle comunità più chiuse di altre e che preferiscono condividere tra di loro la propria cultura più che lasciarsi amalgamare dalla religione con altre persone, eppure basti pensare ai quartieri interetnici, da Genova a Napoli: moltissime persone che talvolta parlano lingue diverse vivono assieme la pratica religiosa, un motivo di connubio che va ben al di là del materialismo e dell’individualismo. Vi assicuro che anche potersi salutare con “salam alaykoum” per strada può trasmettere gioia e un certo senso di sicurezza.
Non mi stupirei se tutta la rabbia contro di noi fosse anche l’espressione della coda di paglia di tanti, di coloro che non riescono neanche più mentalmente ad aspirare ad una comunità e che hanno perso l’abitudine di viverla e di rifletterci. Invece di ritrarci come creature luciferine, anche in questo caso l’Occidente avrebbe tanto da imparare da quel che non è riuscito del tutto devastare.
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Conclusione
Quello che credo ognuno di noi possa evincere è che dovremmo imparare a transizionare smontando poco a poco tutto quello che rinsalda il nostro privilegio, lo status quo, il sistema da cui stiamo tanto pervasə e inquinatə. Dall’islamofobia dovremmo riuscire a passare a una società di pari in cui le differenze vengono validate e in cui si possa ricostruire partendo da esse e dalla marginalità. Come alieno e come crocevia nella mia situazione di intersezione sento molto intensamente questi argomenti; tutto ciò che attraverso l’Islam ho adottato e che ha adottato me quanto il lavoro, le istanze, le proposte, le storie e le voci di tutte persone marginalizzate e entitled che conosco o con cui ho il piacere di dialogare o condividere la vita e l’attivismo, hanno diritto di esistere, diritto alla dignità e all’orgoglio nell’inadeguatezza e nel “tradimento” delle tradizioni tossiche e native occidentali, diritto di essere un’alternativa e di avere un futuro.
Quello che mi preme sottolineare, rivolgendomi allə lettricə non musulmanə o non razzializzatə, è che farsi fare un call out non deve avere il fine di migliorare le nostre società lasciando indietro le comunità al margine, non funziona e non è corretto “prendere il buono” e tentare di svilupparlo a piacere, whitewashandolo. Alle comunità e alle persone musulmane e razzializzate vanno dati i crediti ed è solo attraverso di loro che possiamo cambiare radicalmente i nostri sistemi.
Plus, non solo sarebbe un gesto di appropriazione sfacciato ma neanche funzionerebbe, perché ognuno di questi punti può potenzialmente fornirci gli strumenti per ricostruire i nostri sistemi di oppressione decolonizzando e certo sarebbe controproducente perpetuare le consuete dinamiche di potere e sovradeterminazione ma in una salsa leggermente diversa. Non ci preme ripetere: ci preme sovvertire.
La decolonizzazione è un dovere da parte di chi ha un privilegio e una necessità per chi non ce l’ha; l’obiettivo è creare orizzontalità anche ripartendo dal riconoscere e proteggere il potere delle persone e delle comunità marginalizzate, in maniera da riuscire a sopperire al dislivello un giorno. L’incontro beneficia tuttə e in primis le persone discriminate hanno il potenziale per cambiare i paradigmi tossici e violenti dei nostri ambienti.
Disse l’attivista e scrittore Mario Mieli «se c’è una possibilità per la specie umana di salvarsi da quel suicidio a cui sembra condannata, è attraverso le donne, attraverso i neri e attraverso gli omosessuali».
Come scrivevo all’inizio, questi sono solamente cinque punti e ne potremmo individuare veramente molti altri o continuare questa analisi all’infinito. Facciamolo: diamo il più possibile vita al dialogo in ogni luogo, fisico e virtuale.
Ringrazio lə miə compagnə e sorellə, la mia comunità, per essermi continua fonte di ispirazione nella lotta e nella cura. Vi amo.
Sveva Basirah
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