Alla moschea Al-Kawthar la prima khutba interattiva – SLUM


La nostra moschea prende il nome da “Al Kawthar”, la sura 108 del Sublime Corano, a cui abbiamo dedicato la nostra prima khutba (sermone). Abbiamo scelto questa sura come augurio di abbondanza, ma i suoi significati sono molteplici: qui di seguito la sura con la traslitterazione, alcune traduzioni ed esegesi e la riflessione della compagna Lila. Abbiamo effettuato l’ascolto tramite l’applicazione per telefono Qariah, applicazione con sole recitazioni femminili.

بِسۡمِ ٱللَّهِ ٱلرَّحۡمَـٰنِ ٱلرَّحِیمِ‎
Bismi l-lāhi r-raḥmāni r-raḥīm(i)
إِنَّاۤ أَعۡطَیۡنَـٰكَ ٱلۡكَوۡثَرَ ۝١‎
¹ ’in-nā ’a‘ṭaynāka l-kawthar(a)
فَصَلِّ لِرَبِّكَ وَٱنۡحَرۡ ۝٢‎
² Faṣal-li lirab-bika wanḥar
إِنَّ شَانِئَكَ هُوَ ٱلۡأَبۡتَرُ ۝٣‎
³ ’in-na shāni’aka huwa l-’abtar(u)


Al-Kawtar è una sura meccana, la quattordicesima rivelata, in un momento di difficoltà e solitudine del Profeta e dellə suə compagnə.

In base alle varie traduzioni e alle esegesi, abbiamo identificato i termini “kawthar” (v. 1) e “abtar” (v. 3) come quelli più carichi di significato e abbiamo concentrato la nostra riflessione sulla loro interpretazione e sul senso che acquisiscono nella nostra esperienza.

Partendo dai commentatori uomini e passando poi alle commentatrici, e seguendo l’ordine cronologico delle traduzioni e interpretazioni in italiano, è possibile cogliere diversi punti di vista, da un’esegesi costruita sul male gaze a una rilettura da parte di donne e poi femminista.

Bausani (1988) traduce:

E commenta:

“Kawtar” sarebbe quindi un riferimento all’omonimo fiume del Paradiso, mentre utilizzando il termine “abtar” (tradotto come “senza coda”, quindi “senza figli maschi”) Muhammad ritorcerebbe l’insulto a lui rivolto contro i suoi avversari.

Piccardo (1997) traduce:

E commenta:

L'”abbondanza” rappresenterebbe quindi il godimento della luce divina da parte del Profeta nel Paradiso, mentre l’insulto “abtar” sarebbe stato rivolto a Muhammad in occasione della perdita del figlioletto Qasim, da avversari che credevano che anche l’Islam non avrebbe avuto seguito.

Mandel (1994) traduce:

E commenta:

Anche qui “Kawtar” si riferisce al fiume dato in dono al Profeta nel Paradiso, mentre “abtar” è interpretato in modo più generico come “non avere discendenza”, indipendentemente se maschile o meno.
Passando alle esegete donne, si può cogliere un punto di vista più sfaccettato, anche quando le traduttrici non si richiamano a una visione femminista.

Ida Zilio Grandi (2010) traduce:

E commenta:

Qui “Kawtar” viene tradotto come sovrabbondanza e si ricorda la pluralità delle interpretazioni del termine, da nome del Profeta, a fiume del Paradiso, a Fatima secondo l’esegesi sciita, poiché dette origine a una discendenza profetica attraverso i figli avuti con Ali. “Abtar” viene considerato un insulto rivolto a chi non ha progenie maschile, ma in questa Sura Allah SWT consola il Profeta volgendolo in senso spirituale contro i suoi detrattori, privi di discendenza spirituale.

Infine, nella sua traduzione femminista del Corano, Laleh Bakhtiar (2007) traduce:

E nel suo commentario descrive il termine abtar come:

Senza alcun rimando a questioni di discendenza maschile.

È a partire dalla riflessione su queste diverse esegesi che la compagna e sorella Lila ha raccolto i suoi pensieri e le sue esperienze su questa sura, che leggete qui di seguito.

«Il contesto storico in cui questa sura viene rivelata è caratterizzato dalle avversità che il Profeta e i suoi Compagni affrontano nel momento in cui si distinguono dagli altri per la loro fede, nel momento in cui decidono apertamente di sfidare la maggioranza, l’autorità, il sistema culturale di nascita, per essere ciò che sono liberamente. E Allah è lì con loro, attraverso questa sura, per sostenerli, per dimostrare loro che sono sulla giusta via e, in un certo senso, che quella via fosse lì da prima che loro decidessero qualcosa.
Mentre stavamo discutendo sulle varie implicazioni del concetto di discendenza un’ipotesi mi ha attraversato la mente: e se la discendenza maschile del Profeta non ci fosse per un motivo più alto? E se Allah, attraverso la morte di Qasim e Abdullah, avesse voluto trasmettere un messaggio?
Serve davvero una discendenza di sangue per avere dentro di sé il messaggio divino? Era un ambiente in cui il potere muore con te, uomo, se non hai discendenza maschile e Allah ha più volte rimarcato l’uguaglianza tra individui, perciò: potrebbe essere che, con la morte degli unici figli maschi del Profeta, Allah abbia voluto mettere in discussione questo sistema di valori profondamente patriarcale che predilige il sangue alla vocazione? Che predilige la discendenza di fede al ritorno alla fede, che predilige il legame genetico a quello spirituale?

La mia opinione è che la via sia stata battuta prima di essere percorsa da noi, e il nostro destino, i nostri destini, sono stati decisi prima che li decidessimo noi. Da Qualcun’Altra. Da Allah. Siamo qui perché essere qui insieme era previsto, siamo musulmani, questioning, sincretici, politeisti, atei, perché in questo momento è previsto sia così. La morte della progenie maschile era prevista da Dio e noi traiamo le nostre ipotesi a riguardo. A me, ad esempio, piace pensare che incanalare il messaggio divino nei propri discendenti potrebbe precludere la possibilità di orizzontalità della comunità, dunque l’accessibilità al divino, e l’Islam è una religione di comunità, certo, ma anche fondata sul rapporto personale con Allah, quindi che succederebbe se solo uno tra noi potesse parlare a tu per tu con Dio?

Gerarchia.

La gerarchia, in un mondo capitalista, è tutto. Gerarchizzare la religione significa che una persona, carne e ossa come te, possa essere ascoltato da Dio più di te. Perché, se siamo uguali? Perché tu e non io, se anche io ho bisogno di piangere o ridere con Dio?
Dire addio alla gerarchia significa dire addio alle autorità. E dire addio alle autorità significa dire addio alle priorità di qualcun altro sulle tue, alcune volte, o all’opinione di qualcun altro sulla tua, o ai desideri di qualcun altro sui tuoi desideri. Dire addio alla gerarchia significa riconoscere di essere una persona in mezzo ad altre persone e che nessuno può portarti via te stesso, che nessuno ha diritti su di te, nemmeno se è la tua famiglia o la tua comunità. I Compagni del Profeta e lui stesso sono andati contro i loro stessi parenti, amici, amanti, conoscenti, per essere quello che erano, e Dio li ha supportati con questi versetti perché vivere nella rettitudine e nel rispetto di sé a volte non coincide con la tradizione, con il sangue, con tuo padre o tua madre, con la società, con l’aria che respiri e il cibo che mangi. A volte non coincide e ne prendi atto e vorresti sbattere la testa contro il muro perché alcune persone vivono nella bugia ma tu, da solo nella tua stanzetta con Dio, hai avuto un’illuminazione senza essere né Qasim né Abdullah. Tu hai pianto perché Dio ti ha teso la mano quando il sangue del tuo sangue non l’ha fatto, e allora, forse, la discendenza passa in secondo piano se su quel tappeto, davanti a quell’altare o immerso nella natura, ognuno di noi trova Dio e le sue infinite manifestazioni. E non è abbondanza, questa? Non è fede, questa? Non è Dio, questo?

Anche oggi Dio è qui con noi, a dimostrarci che siamo sulla via battuta per noi. Pochi e raminghi, poveri e acciaccati, proprio come piacciono ad Allah, siamo qui per accettare che non c’è alcun Dio all’infuori di Dio e che proprio per quello che siamo esperiamo Dio, mandando affanculo la maggioranza, la halal police, gli omofobi, i transfobici, ma anche la famiglia nel momento in cui ci negano la possibilità di credere a Dio, non solo! Credere a un Dio che ci ami per quello che siamo.»

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