Il femminismo e la Palestina: come si fa durante un genocidio? – Sara Ihmoud – SLUM

“Ghassa – il groppo in gola che blocca lacrime e parole: cosa significa praticare il femminismo in un momento di testimonianza di un genocidio?”

Ce lo chiediamo grazie all’articolo del 21 ottobre di Sara Ihmoud, tradotto da Federica Cì, che ringraziamo fortemente.

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Cosa significa praticare il femminismo in un momento di testimonianza di un genocidio?

Proprio mentre scrivevo queste parole sul mio taccuino mercoledì mattina, dopo aver letto i conteggi giornalieri delle atrocità in corso – con 4.200 palestinesi uccisi, tra cui almeno 1.000 bambini[1], e oltre un milione di sfollati in soli dieci giorni – ho ricevuto un messaggio WhatsApp da una giovane studiosa di Gaza, Mona Ameen, con cui avevo parlato diverse settimane fa. Mi aveva contattato per intervistarmi per un progetto di ricerca sul femminismo palestinese. Abbiamo parlato per circa un’ora, lei mi ha posto le sue domande in arabo, io le ho risposto per lo più in inglese, con qualche pausa riflessiva, scoppi di risa, una telefonata caduta per via dell’interruzione giornaliera della corrente – una riconnessione, infine, e la condivisione di storie nel mezzo. Le avevo mandato un messaggio dopo l’inizio della guerra la settimana scorsa, una guerra che, in realtà, è iniziata settantacinque anni fa. Mi preoccupo per Mona periodicamente, mentre il bilancio delle vittime continua a salire.

Il suo primo messaggio è stato: “Non sto affatto bene, i miei vicini e i miei colleghi sono stati uccisi, ora tocca a me… pregate per noi”.

Mona è, come molti palestinesi di Gaza in questo momento, sospesa nello spazio-tempo alternativo della guerra coloniale. Aspetta la morte, sa che può arrivare da un momento all’altro e, allo stesso tempo, lotta per la sua vita. Mona ha già vissuto diversi assalti israeliani a Gaza. Il piede di suo fratello minore è stato amputato a causa delle ferite riportate a seguito di un attacco aereo israeliano nel 2014 e nel 2021 ha assistito ad altre atrocità. Originaria di Beit Hanoun, una città sul confine nord-orientale della Striscia di Gaza, è fuggita dalla sua casa alcuni giorni fa durante quest’ultimo assalto, dopo aver ricevuto una chiamata di “avvertimento” dalle forze di occupazione. La sua casa è ormai inabitabile dopo il bombardamento e hanno cercato rifugio a Sheikh Radwan.

Quando le ho chiesto se avesse un messaggio per le donne e le femministe di tutto il mondo in questo momento, mi ha risposto:

“Il mio messaggio a tutte le donne e le femministe [è] solo di continuare a postare sulla Palestina e sui palestinesi e di diffondere la verità, di diffondere le notizie il più possibile, di continuare a parlare di noi, che non siamo numeri, di dire al mondo che non siamo [solo] sotto i bombardamenti come ogni volta.. questa volta è la più difficile, e che stiamo [vivendo] un genocidio, di dire alle donne e alle femministe che un gran numero di madri ha perso i propri figli e un gran numero di bambini completerà la propria vita senza la propria madre. Continuate a postare e postare e postare su di noi… teneteci nelle vostre preghiere”.

Mentre leggo e rileggo i suoi messaggi ora, mi tengo stretto il ricordo della gentilezza nella sua voce quando abbiamo parlato quel giorno. Mi aggrappo anche all’umiltà di Mona – l’umiltà di una giovane donna palestinese che vive nella più grande prigione a cielo aperto del mondo – nel porre domande su come io, avvolta da tutti i privilegi di testimoniare la guerra coloniale da lontano, in un’istituzione accademica con sede negli Stati Uniti, comprendessi il femminismo, su come lo praticassi come palestinese della diaspora. Mi colpisce ora, in particolare, una delle domande che mi ha posto: Credi nel potere della sensibilizzazione femminista come processo di coscienza critica? Quali sono i suoi obiettivi e come si differenzia, secondo te, dal femminismo occidentale?

In questo momento, sono Mona e le nostre donne palestinesi, la nostra gente sul campo, a darci lezioni su cosa significhi praticare il femminismo. In effetti, voglio rispondere alla domanda di Mona con la proposta che praticare l’amore decoloniale in un periodo di guerra genocida è una pratica di coscienza critica femminista.

Parlando di coscienza femminista, non mi riferisco a quel femminismo universale e atemporale che getta le donne palestinesi come vittime indifese che devono essere salvate dalla brutalità selvaggia dei nostri uomini indigeni, specialmente dei nostri uomini musulmani – quella pericolosa narrazione orientalista che è stata usata come arma per vendere una guerra imperiale alle masse, giustificando l’invasione, il furto o la distruzione delle nostre terre d’origine – la stessa narrativa che questa volta ha contribuito ad alimentare la paura e l’odio nei colonizzatori, mobilitandoli per un assalto militare contro il nostro popolo, di cui non potevamo immaginare la portata. Non si tratta nemmeno di quel femminismo coloniale che ci vede solo come “animali umani” (il termine è stato usato dal ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant il 9 ottobre) che partoriscono futuri terroristi, quei mille (e più) bambini palestinesi massacrati da Israele nella recente incursione che il mondo ha permesso di privare della loro umanità e di negare la loro infanzia e il loro futuro. Sto parlando di un femminismo palestinese decoloniale.

Praticare il femminismo nel mezzo della testimonianza di un genocidio significa abbracciare l’amore come coscienza radicale, come politica radicale decoloniale di lotta per la vita. Praticare il femminismo in questo momento significa stringersi l’un l’altro attraverso la vasta oscurità del nostro dolore, camminare l’uno con l’altro mano nella mano, testimoniare i paesaggi di morte e, come ci esorta Mona, dire la verità.

In effetti, le parole di Mona ci invitano a liberarci da questo ghassa, questo groppo in gola che ci impedisce di parlare, e a parlare forte e coraggiosamente al vento.

Dire la verità significa non solo rifiutare di distogliere lo sguardo da ciò che è insopportabile sapere – che la nostra gente non ha accesso all’acqua, al cibo, al riparo da giorni.

Come mi ha scritto Mona: “Se non saremo martirizzati dai bombardamenti, moriremo per la mancanza di acqua e cibo”. Che i nostri edifici, le nostre case e persino gli ospedali sono stati presi di mira e distrutti su scala di massa; i corpi sepolti nelle loro profondità e i nostri bambini morti vengono ancora estratti dalle macerie. E che l’intera popolazione di Gaza è inquadrata come un nemico disumanizzato che deve essere ucciso per dare vita alla colonia.

Dire la verità come femministe in questo momento richiede il rifiuto delle narrazioni coloniali e l’affermazione coraggiosa del potere e della creatività della nostra forza vitale che abbiamo sempre posseduto e coltivato come donne indigene, il potere che abbiamo sempre esercitato al servizio dello smantellamento del colonialismo dei coloni e della guerra genocida, mettendo in crisi la sua prepotenza.

Allo stesso tempo, dire la verità significa amplificare le nostre visioni di libertà e dignità.

Se ascoltiamo, possiamo vedere i frammenti di queste visioni nelle voci della nostra gente a Gaza, come Mona, che ha detto:

“Sono sopravvissuta a molte guerre, ma a questa non credo che sopravviverò! Anche se non voglio morire, ho dei sogni. Voglio avere la possibilità di viaggiare, e voglio avere la possibilità di fare un master e poi un dottorato, ho molti sogni, sono ancora giovane… Dite al mondo… dite al mondo che io sono qui, uno tra i tanti – tutte le persone qui sono traumatizzate e non sanno come esprimerlo, e noi non dimenticheremo. Per favore, continuate a parlare di noi, continuate a raccontare e a diffondere le nostre storie e ciò che sta accadendo ora, e teneteci nelle vostre preghiere”.

Il messaggio di Mona, la sua affermazione che lei è ancora qui, nonostante le molte guerre, che ha dei sogni e che lei (e noi) non dimenticheremo, è un’affermazione della vita e del futuro dei palestinesi nel mezzo dei tentativi coloniali di epistemicidio e memoricidio.

Ho risposto a Mona con un messaggio: “Non perdoneremo mai il mondo che ha permesso che questo accadesse, né smetteremo di lottare per la vita del nostro popolo”. Le ho detto che avrei condiviso le sue parole e che volevo anche dirle che la amiamo e che amiamo il nostro popolo. Amare il nostro popolo e la nostra patria è una cosa sola, e questo amore è qualcosa che il colonizzatore non potrà mai comprendere e non potrà mai portarci via. Sapere questo, sentire profondamente questo amore, significa sapere che abbiamo già vinto.

Mentre la colonia dei coloni israeliani ha gettato un altro momento di apocalisse sui palestinesi, dobbiamo aggrapparci alle parole di Mona: dobbiamo continuare a mettere in atto il rifiuto, a liberarci dalla ghassa, quel nodo in gola quando il dolore è denso e soffocante, per interrompere con coraggio il rumore della compiacenza.

Dobbiamo denunciare a gran voce questa violenza genocida.

Allo stesso tempo, dobbiamo continuare ad amarci e ad affermare l’un l’altro e la nostra lotta comune per la vita, proprio ciò che espone le debolezze e le vulnerabilità del progetto coloniale.

Il nostro rifiuto è una forma di amore.

Infatti, il nostro rifiuto e il nostro amore in mezzo a questa guerra genocida espongono le fratture e i limiti dell’infrastruttura coloniale.

Il nostro amore è vitale in questo momento perché è l’amore rivoluzionario che ci dà il coraggio di continuare la lotta per affermare la vita e il futuro dei palestinesi nella nostra patria. Questa è la nostra litania palestinese per la sopravvivenza.

[1] Dati del 21 ottobre, ad oggi i dati parlano di più di 20.000 persone palestinese uccise, di cui più di 8.000 bambini

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